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maggio 09, 2013

Giulio Andreotti altro che faldoni, ecco la sentenza–da ricordare - (11a parte).

wojtyla-andreottiA questo punto il ricorrente ha analizzato l’attendibilità di Tommaso Buscetta, rilevando che la Corte aveva utilizzato criteri del tutto illogici e in contrasto con la giurisprudenza di legittimità, avendo in sostanza affermato che non coerenza, costanza e precisione, ma contraddizioni, incertezze e oscillazioni rendevano credibili le dichiarazioni in quanto permettevano di escludere che le accuse fossero il deliberato parto di una maliziosa fantasia e inoltre che, grazie all’assunto che il propalante sconta indiscutibili improprietà lessicali, aveva ignorato il tenore letterale dei verbali privilegiando il senso delle dichiarazioni, così ovviando a contraddizioni insuperabili.

Questa tecnica aveva consentito di dare credito ad un episodio completamente inventato, cioè al presunto incontro tra Badalamenti e Andreotti per l’aggiustamento del processo Rimi, inizialmente collocato in epoca in cui alcuni protagonisti di tale incontro erano detenuti.

Oltre tutto la credibilità di Buscetta era stata affermata ignorando totalmente le approfondite argomentazioni con cui la difesa aveva dimostrato le numerose falsità da costui riferite, ad esempio a proposito dell’omicidio Pecorelli e del sequestro di Aldo Moro (egli aveva pedissequamente copiato le dichiarazioni di Marino Mannoia).

Ancora, a proposito del predetto incontro tra Andereotti e Badalamenti per aggiustare il processo di Cassazione a carico dei Rimi, utilizzato dalla Corte palermitana quale riscontro delle dichiarazioni di Mannoia sull’incontro tra Andreotti e Bontate nel 1980, il ricorrente ha rilevato trattarsi di episodi del tutto diversi e autonomi.

Nella prospettazione accusatoria questo incontro, riferito “de relato” da Buscetta e originariamente collocato nel 1971 (la sentenza della Cassazione è del 3.12.1971), quando in realtà sia Vincenzo Rimi (poi deceduto nelle more del giudizio) e Filippo Rimi sia Badalamenti erano detenuti, era stato a lungo il fulcro del processo, quale rivelatore dell’esistenza del patto di scambio tra Andreotti (che avrebbe ottenuto appoggio elettorale) e Cosa Nostra.

Ma in dibattimento Buscetta, appresa la smentita di Badalamenti, aveva modificato la propria versione riferendo di un incontro avvenuto nel 1979 a Roma nello studio del sen. Andreotti di ringraziamento da parte di Badalamenti per l’interessamento svolto a favore di suo cognato Filippo Rimi (Vincenzo era ormai deceduto) per il processo non più in Cassazione, ma genericamente celebrato a Roma (giudice di rinvio fu designata la Corte di Assise di Appello di Roma, che decise il 13.2.1979).

La sentenza di primo grado aveva preso atto delle molteplici contraddizioni e incongruenze. Invece la sentenza di appello le aveva ignorate ritenendo, contraddittoriamente, provato l’incontro, ma non l’intervento di Andreotti per pilotare il verdetto, senza considerare che, in tal modo, veniva sgretolata la causale del presunto incontro, essendo priva di qualsiasi prova, oltre che irrazionale, l’argomentazione secondo cui Andreotti avrebbe fatto finta di attivarsi e che il particolare riferimento ricavato dalle dichiarazioni dei collaboranti era inesistente, avendo essi fornito notizie diverse e contrastanti, come ampiamente dimostrato dalla stessa sentenza di primo grado oltre che dalla memoria che la difesa dell’imputato aveva depositato nel giudizio di appello.

Quindi il ricorrente ha analizzato i rapporti con i cugini Ignazio e Nino Salvo, ritenuti certi dalla sentenza, che li aveva inquadrati nelle presunte relazioni con l’ala moderata di Cosa Nostra e che si sarebbero affievoliti nel 1980.

Sul punto della conoscenza con i Salvo, il ricorrente ha rilevato che la Corte di Appello aveva addirittura ritenuto inconcludenti i dati di fatto valorizzati (il numero di telefono del sen. Andreotti in possesso di Ignazio Salvo, il regalo di nozze alla figlia di Nino Salvo, la richiesta di notizie sulla salute di Cambria) e le argomentazioni addotte dal Tribunale per dimostrarla, e che si era invece basata sulle dichiarazioni di Marino Mannoia, affermando che sarebbero state riscontrate da quelle di Tommaso Buscetta, che invece il Tribunale aveva definito assolutamente inattendibile.

Quanto a Mannoia, la Corte territoriale era incorsa in una palese petizione di principio perché aveva indicato proprio nei rapporti tra Andreotti e i Salvo un elemento di riscontro alle dichiarazioni del collaboratore e una prova indiretta della verità di quanto da lui detto circa gli incontri tra il sen. Andreotti e Stefano Bontate, per cui aveva trasformato un elemento di riscontro in prova autonoma di un fatto che, a sua volta, necessitava di essere dimostrato con fatti diversi ed esterni alle suddette dichiarazioni.

Il ricorrente ha rilevato che le minuziose ed esasperate indagini svolte non avevano offerto alcuna prova di incontri, contatti, conversazioni tra l’imputato e i cugini Salvo (mancanza gratuitamente attribuita dalla sentenza impugnata alla riservatezza dei protagonisti), a eccezione di fotografie che avevano documentato circostanze tanto occasionali quanto irrilevanti, tali da spiegare per quale ragione l’imputato non ne avesse conservato memoria: la presenza di Nino Salvo nella platea del Cinema Nazionale di Palermo tra le numerose persone che assistevano al comizio di Andreotti alla chiusura della campagna elettorale per le elezioni al Parlamento europeo del 1979 e il successivo ingresso del medesimo all’Hotel Zagarella, certamente da lui non scelto, ove era stato organizzato un ricevimento cui parteciparono varie personalità democristiane e ove venne accolto da Nino Salvo, che ne era proprietario e che lo guidò attraverso i saloni dell’albergo.
 

Il ricorrente non ha riconosciuto maggior risultato alle argomentazioni di carattere logico con le quali il giudice di appello aveva tentato di dare sostegno alla propria statuizione, ritenendole intrinsecamente contraddittorie e frutto di un apprezzamento erroneo delle risultanze processuali. Così, ad esempio, la sentenza impugnata non si era avveduta che le osservazioni sviluppate per spiegare le ragioni per cui Andreotti non avrebbe avuto motivo di negare la conoscenza con i Salvo, se fosse stato preoccupato soltanto del possibile appannamento della propria immagine, valevano, in identica misura, a spiegare anche il motivo per cui l’imputato non avrebbe avuto ragione di negare tali rapporti anche nell’ipotesi in cui essi fossero stati illeciti, così come non si era resa conto dell’irrazionalità che permeava l’interpretazione delle dichiarazioni e dei giudizi espressi dal gen. Dalla Chiesa rispetto ad appartenenti alla corrente andreottiana siciliana (nell’incontro avvenuto il 5 Gennaio 1982 il generale avrebbe detto ad Andreotti di sapere dei suoi in Sicilia e costui si sarebbe sbiancato in volto).

Inoltre il ricorrente ha rimproverato alla sentenza impugnata di avere trascurato le osservazioni con cui la difesa aveva rivalutato la deposizione dell’attendibile Nicolò Mario Graffagnini, già segretario provinciale della DC di Palermo, il quale aveva dichiarato che, in occasione di una visita di Andreotti a Palermo, Ignazio Salvo aveva declinato l’invito di Salvo Lima, che desiderava presentarlo al senatore, spiegando di voler evitare che si pensasse che egli intendesse passare agli andreottiani, circostanza che dimostrava che i due non si conoscevano e non avevano rapporti.

Infine, il ricorrente ha preso in esame i presunti riscontri ravvisati dalla sentenza impugnata nelle dichiarazioni di Giovanni Brusca, affermando che esse erano assolutamente insignificanti e che la Corte di Appello aveva fatto ricorso all’artifizio retorico di negare o ridurre il valore di un dato per far risaltare quello del dato che aveva inteso valorizzare.

Così, dopo aver sostenuto l’attendibilità e la credibilità di Buscetta, ne aveva ammesso oscillazioni e approssimazioni per concludere che qualcuno avrebbe potuto dissentire sulla efficacia corroborativa delle sue dichiarazioni per poi subito dopo sostenere che non era invece possibile disconoscere l’efficacia delle dichiarazioni di Giovanni Brusca.

Ma, sul conto di costui, la stessa sentenza impugnata aveva introdotto rilievi gravi (non era un collaboratore della prima ora, ma era intervenuto quando i temi del processo erano conosciuti; non era esente dal sospetto di perseguire benefici processuali e personali, dipendenti anche dall’apparato inquirente) senza poi addurre elementi concretamente idonei a superarli, tali non potendo essere considerati il mancato sostegno alle propalazioni di Baldassare Di Maggio in merito al preteso incontro tra Andreotti e Totò Riina in casa di Ignazio Salvo o la negata conoscenza di leggi o provvedimenti favorevoli a Cosa Nostra emessi per intervento dell’imputato.

Del resto, le fonti di conoscenza di Giovanni Brusca sarebbero state, secondo quanto da lui stesso riferito, il padre, dei colloqui con il quale non esisteva alcun riscontro, e Nino Salvo, il quale gli avrebbe confidato che, in passato, era riuscito ad interessare il sen. Andreotti per l’aggiustamento di un processo a carico dei Rimi. Ma anche di questo colloquio nessuno aveva potuto dare la prova e, comunque, lo stesso Brusca aveva riferito che il suo interlocutore aveva escluso di poter intervenire ancora presso il sen. Andreotti.

Il ricorrente ha anche sottolineato che nessun riscontro era ricavabile dal collaborante Di Carlo, delle cui dichiarazioni in merito ai presunti rapporti tra il sen. Andreotti e i cugini Salvo era stata dimostrata la plateale falsità (si veda, ad esempio, la collocazione dello studio privato di Andreotti nel popolare e periferico quartiere di San Lorenzo, mentre all’epoca esso si trovava proprio in Piazza Montecitorio e successivamente era stato trasferito nella vicinissima e centrale Piazza San Lorenzo in Lucina).

5) - Con il quinto motivo il ricorrente ha eccepito la nullità della sentenza e della ordinanza 25.10.2001 della Corte di Appello per mancata assunzione di una prova decisiva, consistita nella produzione di ulteriore documentazione atta a contrastare quella prodotta, nel corso del dibattimento, dalla Procura Generale e concernente i movimenti del sen. Andreotti negli ultimi mesi del 1979 e i suoi impegni dall’agosto al dicembre di quell’anno, per dimostrare l’assoluta impossibilità di viaggi segreti in Sicilia al fine di incontrarsi con i vertici di Cosa Nostra.

La Corte territoriale, dopo aver ritenuto l’indagine non necessaria, aveva esaminato la possibilità che il sen. Andreotti si fosse recato in Sicilia anche in giorni diversi da quelli originariamente presi in considerazione, possibilità che sarebbe stata esclusa dalla documentazione che si era in grado di produrre.

6) - Con il sesto motivo il ricorrente ha eccepito la nullità della sentenza per mancanza e manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla ritenuta partecipazione, fino alla primavera del 1980, all’associazione per delinquere denominata Cosa Nostra, da cui, a partire da detta epoca, si sarebbe dissociato per poi combatterla senza quartiere, mettendo a repentaglio la vita propria e dei familiari.
Infatti, secondo la implausibile sentenza impugnata, il sen. Andreotti avrebbe partecipato a Cosa Nostra per un lungo periodo senza capirne esattamente natura, finalità e metodi di azione; avrebbe frequentato tranquillamente, anche se segretamente, personaggi mafiosi di notevole calibro; avrebbe partecipato al sodalizio allo scopo di perseguire obiettivi illeciti, altrimenti irraggiungibili; si sarebbe recato in Sicilia per discutere della linea politica dell’on. Mattarella con boss mafiosi; sarebbe rimasto folgorato dall’omicidio di Piersanti Mattarella; scoperta la vera natura di Cosa Nostra, avrebbe impunemente e tranquillamente voltato le spalle al sodalizio criminoso e scatenato contro di esso una guerra senza quartiere.

D’altra parte, la stessa sentenza aveva riconosciuto che moltissimi dei collaboranti avevano disinvoltamente dichiarato il falso nella ricerca di facili benefici e che molte propalazioni erano state generiche e, quindi, inconsistenti sul piano probatorio e aveva inoltre arrecato un duro colpo alla tesi accusatoria secondo cui Andreotti avrebbe partecipato a Cosa Nostra da tempo immemorabile fino al 1992, senza peraltro dimostrare cosa avrebbe fatto a favore della mafia.

Invece la condotta tenuta a partire dalla primavera del 1980 era stata tale da escludere che egli, in precedenza, potesse avere assunto atteggiamenti in conflitto con i principi cui si era palesemente ispirato in seguito, dimostrando una effettiva, specifica e concreta condotta contro la mafia.

Quanto alle motivazioni che lo avrebbero spinto ad associarsi con Cosa Nostra, la stupefacente tesi dell’accusa, secondo cui egli avrebbe accolto nel 1970 nella propria corrente Salvo Lima riuscendo grazie al suo apporto ad uscire dal ghetto della politica laziale, era ridicola sul piano storico, essendo nota la sua carriera politica e, in particolare, le circostanze che venne scoperto, giovanissimo, da Alcide De Gasperi, il quale ne aveva fatto il suo più prezioso e vicino collaboratore e che la sua ascesa politica era stata continua e costante, come dimostrava, ad esempio, l’elezione ancora molto giovane all’Assemblea Costituente.

Il ricorrente ha poi sottolineato che la sua carriera politica si era svolta a livello governativo piuttosto che di partito, ragione per cui non aveva avuto alcuna necessità di gestire una grande corrente e infatti si era sempre curato poco della propria.

Egli ha anche sostenuto che la sentenza di appello non aveva condiviso l’impostazione dell’accusa, ma aveva prescelto una tesi altrettanto illogica e assurda, avendo affermato che il sen. Andreotti avrebbe partecipato a Cosa Nostra allo scopo di usufruire di canali paralegali per ottenere risultati non raggiungibili con metodi ortodossi, risultati peraltro non concretamente indicati, non potendo essere credibilmente considerato tale l’episodio Nardini.

Ha concluso, sul punto, con il rilievo che la stessa sentenza era stata costretta – conformemente a quella di primo grado - a riconoscere che mancava la prova di un qualsiasi suo intervento concreto in favore di Cosa Nostra, ragione per cui egli avrebbe solo millantato credito, facendo credere per anni ai vertici mafiosi (evidentemente considerati una congregazione di ingenui amiconi, disponibili ad essere presi in giro) di essersi attivato in loro favore, mentre nella realtà sarebbe rimasto inerte.

Per accreditare questa tesi, la Corte di Appello era stata costretta ad introdurre una massima di esperienza illogica e paradossale, essendo giunta ad affermare che la possibilità di realizzare extra ordinem obiettivi non ortodossi è un fatto suscettibile di affascinare qualsiasi uomo di governo.
7) - Con il settimo e ultimo motivo il ricorrente ha eccepito la nullità della sentenza per inosservanza ed erronea applicazione di norme giuridiche.

Il riferimento è all’art. 129 c.p.p. sul rilievo che, per quanto riguarda il reato sub a), la Corte territoriale, anziché verificare allo stato degli atti se risultasse evidente l’innocenza dell’imputato – unica valutazione possibile in presenza di una causa di estinzione del reato (nella specie la prescrizione) – si era impegnata a dimostrarne la colpevolezza prima di dichiarare il reato estinto.
 
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