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maggio 08, 2013

Giulio Andreotti altro che faldoni, ecco la sentenza–da ricordare - (8a parte).

wojtyla-andreottiLa Corte ha, quindi, valutato giuridicamente i comportamenti dell’imputato al fine di verificare se gli stessi integrassero, o meno, la contestata partecipazione all’associazione criminale.

Ha dichiarato estinto il delitto di associazione per delinquere (capo a della rubrica), essendo decorso, dalla primavera del 1980, un lasso di tempo ampiamente superiore al termine prescrizionale di legge; del resto esso si sarebbe prescritto anche considerandolo commesso, come addebitato, fino alla vigilia della introduzione del delitto di associazione mafiosa (28 settembre 1982), posto che si sarebbe dovuta escludere l’aggravante di cui al comma 4 della disposizione incriminatrice non essendo stata la stessa, in punto di fatto, ritualmente contestata, poiché non è sufficiente, all’uopo, ascrivere, come era stato fatto, all’imputato l’appartenenza ad un’associazione per delinquere genericamente armata, atteso che “in tema di associazione a delinquere aggravata ai sensi del 4º comma dell’art. 416 c.p., perché sussista la circostanza aggravante della «scorreria in armi» è necessario che la condotta si connoti per un aumentato pericolo dell’ordine pubblico e per un particolare allarme sociale; tali caratteristiche sussistono allorché gli associati «scorrono» in armi le campagne e le pubbliche vie col proposito di realizzare le condotte criminose che si riveleranno possibili, con correlate azioni di depredazione, grassazione e soverchierie, mentre non è sufficiente che essi possiedano stabilmente delle armi, debitamente occultate, e che per la commissione dei singoli reati fine effettuino con esse spostamenti da luogo a luogo” (Cass. sez. V, 3.5.2001 n. 32439, Madonna; in senso analogo cfr. Cass. sez. VI, 23.1.1998 n. 265, Trisciuoglio). In ogni caso la prescrizione si sarebbe verificata per effetto della applicazione delle circostanze attenuanti generiche, che non potevano essere negate.

La Corte ha osservato che anche il Tribunale non aveva ritenuto del tutto destituito di fondamento l’assunto accusatorio, ma aveva semplicemente ritenuto non completamente provata la commissione dei reati contestati, significativamente menzionando, nel dispositivo, il comma 2 dell’art. 530 c.p.p.: la situazione delineata non era, dunque, quella di un convincimento ampiamente liberatorio impugnato dal P.M., che avrebbe reso ragionevolmente ingiustificata una pronuncia di estinzione del reato non preceduta da un’approfondita valutazione circa l’effettivo fondamento del gravame. Poteva, allora, dirsi che, in presenza del sopravvenuto maturare della prescrizione del reato, lo stesso pronunciamento impugnato giustificasse, di per sé, l’applicazione del criterio secondo cui, in presenza di una causa estintiva del reato, il proscioglimento nel merito, ai sensi dell’art. 129, 2º comma, c.p.p. si impone solo se sussista l’evidenza della prova di innocenza dell’imputato alla quale è equiparata la mancanza totale della prova di responsabilità, mentre non trova applicazione l’ulteriore equiparazione in concreto tra mancanza totale e insufficienza o contraddittorietà della motivazione di cui all’art. 530, 2º comma, c.p.p. quando sussista un concorso processuale di cause di proscioglimento, poiché altrimenti verrebbe a vanificarsi il criterio della «evidenza» posto dal legislatore per risolvere il predetto concorso (cfr., fra altre analoghe, Cass. sez. III, 24.4.2002 n. 20807, Artico).

D’altra parte, secondo la Corte territoriale, la profonda revisione della ricostruzione dei fatti da essa operata rispetto a quella preferita dai primi giudici aveva modificato radicalmente, e in senso nettamente sfavorevole all’imputato, il quadro probatorio che aveva dato luogo al (dubitativo) verdetto assolutorio, sicché la stessa revisione doveva ritenersi, di per sé, sufficiente a giustificare una rinnovata, integrale valutazione degli elementi acquisiti, alla quale non poteva rimanere estranea la previa verifica dell’applicabilità dell’art. 129 c.p.p. e, dunque, dell’eventuale ricorrenza di una causa estintiva del reato.

E, in effetti, siccome emerge dalla narrazione che precede, la Corte palermitana ha ritenuto provato che il sen. Andreotti avesse avuto piena consapevolezza che i suoi sodali siciliani intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; che avesse, quindi, a sua volta, coltivato amichevoli relazioni con gli stessi boss; che avesse loro palesato una disponibilità, non meramente fittizia, ancorché non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi agevolativi; che avesse loro chiesto favori; che li avesse incontrati; che avesse interagito con essi; che avesse loro indicato il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella, sia pure senza riuscire, in definitiva, ad ottenere che le sue indicazioni venissero seguite; che li avesse indotti a fidarsi di lui e a parlargli anche di fatti gravissimi (come appunto l’assassinio del Presidente Mattarella), nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunciati; che avesse omesso di denunciare le loro responsabilità, in particolare in relazione all’omicidio del presidente Mattarella, malgrado potesse, al riguardo, offrire utilissimi elementi di conoscenza.

La stessa ha interpretato detti fatti non come semplice manifestazione di un comportamento solo moralmente scorretto e di una vicinanza penalmente irrilevante, ritenendoli invece indicativi di vera e propria partecipazione all’associazione mafiosa, apprezzabilmente protrattasi nel tempo.

Ha anche evidenziato che, nel periodo antecedente al 1980, erano ancora agli albori l’attacco violento ai rappresentanti delle istituzioni e il ricorso ai metodi sanguinari che, in seguito, avrebbero allontanato l’imputato dai mafiosi con i quali aveva fino ad allora coltivato amichevoli relazioni, non ostacolate da tale insuperabile pregiudiziale ideologica; che non era ancora emersa in termini chiari la fallacità del comune convincimento circa la determinante forza elettorale di Cosa Nostra, che aveva indotto Bontate ad ammonire il suo illustre interlocutore circa la necessità di conservare il favore della mafia e che poteva astrattamente indurre a coltivare buone relazioni con i mafiosi; che non vi era traccia, nell’attività politico-istituzionale di Andreotti, di un impegno antimafia che potesse giustificare il convincimento che l’amicizia palesata ai mafiosi fosse soltanto simulata (era emblematica la vicenda Mattarella in cui l’imputato non si era mosso secondo logiche istituzionali, ma aveva cercato di assumere il controllo della situazione dialogando con i mafiosi).
Quindi ha rimarcato che la manifestazione di amichevole disponibilità verso i mafiosi, proveniente da una personalità politica così eminente e così influente, non poteva, di per sé, non implicare la consapevole adduzione all’associazione di un rilevante contributo rafforzativo.

Lo dimostravano: la “prosopopea”, fastidiosa per i suoi avversari, mostrata da Bontate nel parlare delle sue amichevoli relazioni con l’imputato, segno inequivoco del fatto che il capomafia riteneva di trarne forza e prestigio; l’opinione, non importa se giustificata o meno, che inevitabilmente si era diffusa fra gli “uomini d’onore”, secondo cui l’amicizia di Andreotti assicurava al sodalizio una protezione al massimo livello politico, tradotta in una sostanziale “impunità”; il sentimento della forza della organizzazione indotto in Giovanni Brusca dalla notizia dell’intervento dell’imputato nel processo Rimi; il valore sintomatico della vicenda Mattarella, essendo condivisibile il rilievo che i mafiosi si erano determinati ad alzare il tiro su un così eminente esponente del partito di maggioranza relativa anche perché supponevano di non incorrere in conseguenze pregiudizievoli in quanto contavano sull’appoggio di ancora più importanti personaggi politici.

In definitiva, la Corte di Appello ha ritenuto ravvisabile il reato di partecipazione all’associazione per delinquere nella condotta di Andreotti, trattandosi di un eminentissimo personaggio politico nazionale, di spiccatissima influenza nella politica generale del Paese ed estraneo all’ambiente siciliano, il quale, nell’arco di un congruo lasso di tempo, anche al di fuori di una esplicitata negoziazione di appoggi elettorali in cambio di propri interventi in favore di un’organizzazione mafiosa di rilevantissimo radicamento territoriale nell’Isola: a) aveva chiesto e ottenuto, per conto di suoi sodali, ad esponenti di spicco della associazione interventi para-legali, ancorché per finalità non riprovevoli; b) aveva incontrato ripetutamente esponenti di vertice della stessa associazione; c) aveva intrattenuto con essi relazioni amichevoli, rafforzandone l’influenza anche rispetto ad altre componenti dello stesso sodalizio tagliate fuori da tali rapporti; d) aveva palesato autentico interessamento in relazione a vicende particolarmente delicate per la vita del sodalizio mafioso; e) aveva indicato ai mafiosi, in relazione a tali vicende, le strade da seguire e discusso con i medesimi anche di fatti criminali gravissimi da loro perpetrati in connessione con le medesime vicende, senza destare in essi la preoccupazione di venire denunciati; f) aveva omesso di denunciare elementi utili a far luce su fatti di particolarissima gravità, di cui era venuto a conoscenza in dipendenza di diretti contatti con i mafiosi; g) aveva dato, in buona sostanza, a detti esponenti mafiosi segni autentici – e non meramente fittizi – di amichevole disponibilità, idonei, anche al di fuori della messa in atto di specifici ed effettivi interventi agevolativi, a contribuire al rafforzamento della organizzazione criminale, inducendo negli affiliati, anche per la sua autorevolezza politica, il sentimento di essere protetti al più alto livello del potere legale.
 
8- Il ricorso della Procura Generale
Riepilogata brevemente la sentenza impugnata e ricordato che essa aveva ritenuto il reato di associazione per delinquere commesso sino alla primavera del 1980 ma estinto per prescrizione, mentre aveva confermato per il periodo successivo la statuizione assolutoria del Tribunale, la Procura Generale presso la Corte di Appello di Palermo l’ha stigmatizzata sotto il duplice profilo dell’erronea applicazione della legge penale sostanziale e processuale (con particolare riferimento agli artt. 416, 416 bis, 157 c.p. e art. 192, comma 2 c.p.p.) e del vizio di motivazione.

La Procura Generale ricorrente ha rilevato che era stato riconosciuto valore sintomatico, ai fini dell’accertamento del reato associativo, a taluni episodi e rapporti risultanti fino alla primavera del 1980, mentre i fatti successivi erano stati ritenuti non congruamente dimostrati o privi di valenza significativa. Sennonché la sentenza impugnata non si era limitata ad apprezzare tali fatti per verificare la sussistenza di ulteriori manifestazioni indicative di partecipazione al sodalizio, ma aveva utilizzato il dato probatorio negativo per inferirne la cessazione della permanenza del reato associativo, cioè la prova del recesso volontario dal sodalizio, senza considerare che esso deve risultare non dall’assenza di ulteriori comportamenti adesivi al sodalizio, ma da coerenti e inequivocabili segni di ravvedimento incompatibili con la volontà di perpetuare il legame con l’organismo criminale.

In particolare, l’unico elemento in tal senso individuato dalla Corte di Appello sembrava essere l’impegno antimafia iniziato con i provvedimenti riferibili al Gabinetto presieduto da Giulio Andreotti, culminati con l’incisiva normativa repressiva del 1991.

Ma, relativamente al periodo compreso tra il secondo incontro con Bontate e gli ultimi anni ’80, la Corte territoriale non aveva accertato l’esistenza di segnali di recesso di segno contrario rispetto all’adesione, ma si era limitata a considerare i fatti successivi potenzialmente rivelatori di “affectio” per concludere che essi non erano sufficientemente dimostrativi e traendone irrazionalmente il convincimento della cessazione della permanenza.

La Procura Generale ha criticato anche l’interpretazione data dalla sentenza impugnata agli artt. 416 e 416 bis c.p.. In particolare ha contestato la contrapposizione dell’ipotesi di acquisizione dello status di “uomo d’onore” attraverso la formale affiliazione a quelle di realizzazione della condotta tipica, impropriamente indicate come di “concorso nel reato associativo”, che prescindono dall’inserimento formale, ma in realtà sono riferite alla condotta del partecipe (consapevole cooperazione continuativa) e a quella del concorrente esterno (singoli contributi concreti tali da arrecare un apporto essenziale alla vita dell’organizzazione per il superamento di suoi momenti di particolare difficoltà).

Secondo la ricorrente, da questa erronea accomunazione dell’ipotesi del partecipe non ritualmente affiliato e del concorrente esterno la Corte di Appello aveva fatto discendere conseguenze rilevanti e non condivisibili, avendo ritenuto che l’affiliazione formale determini la tendenziale perpetuità del vincolo associativo e che invece nelle altre due ipotesi considerate la condotta associativa sia ravvisabile solo fino a quando gli apporti vengano arrecati o fino a quando persista la disponibilità.

Ma poi, nel valutare la condotta dell’imputato, la Corte, dovendo tenere realisticamente conto della sua particolare posizione nell’ambito del potere legale, aveva ritenuto sufficiente la semplice consapevolezza, da parte dei membri della organizzazione mafiosa, della sua disponibilità, idonea a rafforzare il sodalizio, giustificando negli affiliati il convincimento di essere protetti al più alto livello, con la conseguenza, sul piano giuridico, che la stessa perdurante disponibilità può costituire, di per sé, un notevole e continuativo contributo all’associazione criminale.

Così la Corte territoriale, nell’affermare la sussistenza del reato associativo, aveva valutato non determinante il deficit probatorio in ordine a specifici e concreti interventi agevolativi degli interessi dell’associazione mafiosa da parte dell’imputato, essendo sufficiente la consapevole instaurazione, non senza personale tornaconto, di una relazione stabile con il sodalizio e l’apprestamento di un contributo rafforzativo attraverso la manifestazione di disponibilità verso i mafiosi (in definitiva, nel delineare le due ipotesi di “partecipazione non formale”, ha considerato elemento caratterizzante di entrambe la prestazione di un apporto concreto il cui reiterarsi vale a condizionare la permanenza del reato).

Ma poi aveva finito per distinguere, sul piano ontologico e probatorio, le due ipotesi di partecipazione non formale attribuendo rilievo alla disponibilità, considerata di per sé contributo rafforzativo e quindi aveva escluso che potesse avere valore determinante la mancata dimostrazione di specifici e concreti interventi agevolativi a favore del sodalizio.

La ricorrente ha ritenuto quest’ultima scelta sicuramente condivisibile, ma non altrettanto l’assimilazione delle due figure del “partecipe non formalmente aggregato” e la contrapposizione di entrambe a quella del soggetto affiliato quanto alla durata del vincolo e alla prova della permanenza, rilevando che, ritenere che in questi due casi la condotta tipica sia definita dai singoli apporti concreti e che la permanenza del reato possa dirsi cessata in mancanza di prova di ulteriori apporti o manifestazioni di disponibilità, contrasta con l’affermazione della stessa Corte secondo cui tra le ipotesi riconducibili alla partecipazione del non affiliato nella forma della cooperazione continuativa rientrano i casi assimilabili alla partecipazione dell’affiliato.

Secondo la ricorrente, la categoria della “partecipazione non formale” si attaglia non solo alle ipotesi di concorso esterno, ma anche a tutti i casi di soggetti il cui inserimento a pieno titolo nell’organizzazione risulti dallo stabile impiego in attività delittuose caratterizzate dal metodo mafioso o comunque funzionali al mantenimento e al rafforzamento del sodalizio criminale. Altrimenti si perverrebbe alla conseguenza aberrante di dover provare la perdurante adesione con la dimostrazione dei singoli apporti.

Inoltre la ricorrente ha assunto che tale criterio non è coerente neppure con l’affermazione, secondo cui nello schema del partecipe non affiliato, rientrano anche i legami in cui l’agente abbia deliberatamente e consapevolmente prestato al sodalizio mafioso un contributo non episodico, ma di apprezzabile continuità e stabilità, tale da rivelare la coscienza e volontà di aderire alla associazione criminale, dal momento che la stessa Corte d’Appello aveva finito con accedere alla tesi secondo cui, in questi casi, ai fini della partecipazione è sufficiente la manifestazione di disponibilità.

La ricorrente ha concluso, sul punto, che se partecipazione vi era stata - come ritenuto dalla Corte territoriale fino al 1980 – la sua scelta interpretativa era in contrasto con l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui, in tale ipotesi, il vincolo associativo si instaura nella prospettiva di una permanenza a tempo indeterminato nell’associazione criminale e si protrae fin quando non si verifichi, attraverso elementi indiziari certi, una condotta esplicita, univoca e coerente che esprima la volontà di recedere dal sodalizio.

La Procura Generale ricorrente ha ritenuto il convincimento della Corte territoriale viziato anche sotto il profilo motivazionale riguardo al radicale ripensamento dei rapporti, fino allora mantenuti, che sarebbe intervenuto nell’imputato a seguito degli avvenimenti culminati con l’incontro a Palermo con Stefano Bontate nella primavera del 1980.

In proposito ha rilevato che la sentenza, pur avendo riconosciuto che l’episodio confermava il legame stabile instaurato dal sen Andreotti attraverso l’on. Lima e i cugini Salvo con l’ala moderata di Cosa Nostra, al tempo stesso aveva sostenuto che tale episodio ne segnava anche la crisi e costituiva l’elemento rivelatore del declino delle relazioni dell’imputato con il sodalizio.

La sentenza impugnata aveva ritenuto che Andreotti si fosse determinato all’incontro per ottenere chiarimenti sull’omicidio Mattarella, seguito al fallimento del suo tentativo di composizione attraverso la mediazione politica e che l’esito sconfortante dell’incontro avesse fatto maturare la definitiva consapevolezza della pericolosità (ma la stessa Corte aveva poi fatto riferimento ai gravissimi fatti di sangue del 1979, pienamente dimostrativi al riguardo), fino a quel momento sottovalutata, dell’organizzazione.

Un tale ragionamento è, secondo la ricorrente, meramente congetturale (lo aveva riconosciuto la stessa Corte), svincolato dalle risultanze processuali, puramente assertivo e talora illogico, fondato su un’unica fonte probatoria, Marino Mannoia, il quale invece si era limitato a riferire sull’iniziativa dell’imputato perché si svolgesse l’incontro senza nulla dire in ordine all’asserito cambiamento di rotta.

L’altro elemento considerato dalla Corte di Appello come dimostrativo del definitivo logoramento dei rapporti dell’imputato con Cosa Nostra (il mutato assetto degli equilibri in seno all’organizzazione passata sotto il controllo dei “corleonesi” di Riina) si era risolto in un inammissibile salto logico laddove, a fronte di un quadro di riferimento sostanzialmente immutato (le perduranti relazioni con Lima e i Salvo e il ruolo di referenti politici della mafia che costoro avevano continuato a svolgere), era stato attribuito peso determinante al mutato assetto di potere interno all’organizzazione, senza considerare che la prova del recesso non poteva prescindere dalla dimostrazione della interruzione, o almeno diversificazione, di quei legami.

La ricorrente ha osservato che la sentenza impugnata aveva ritenuto cessata la perdurante disponibilità mediata dai referenti politici siciliani come presupposto dimostrato, mentre invece era il fatto da dimostrare.
 
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