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maggio 09, 2013

Giulio Andreotti altro che faldoni, ecco la sentenza–da ricordare - (12a parte).

wojtyla-andreottiMOTIVI DELLA DECISIONE.
10- I principi giuridici applicati da questa Corte
Le argomentazioni dei ricorrenti hanno proposto all’esame della Corte questioni che rendono necessaria l’enunciazione di alcuni principi giuridici che vanno esaminati in questa sede in quanto costituiscono le linee guida della decisione.

Vengono, perciò, qui di seguito trattati i problemi concernenti la partecipazione all’associazione mafiosa e la permanenza in essa, la valutazione delle deposizioni dei collaboratori di giustizia, l’onere motivazionale del giudice di appello che riformi la sentenza di primo grado, i limiti di censurabilità nel giudizio di cassazione del vizio di motivazione, l’assoluzione nel merito in presenza di una causa estintiva del reato.

a) I giudici di merito e i ricorrenti si sono preoccupati di delineare gli elementi costituitivi dei contestati delitti di associazione per delinquere e di associazione di tipo mafioso e di individuare i limiti della partecipazione a tali associazioni.

Con la nota sentenza n. 16 del 2004, Demitry, le Sezioni Unite di questa Corte hanno chiarito che partecipante all’associazione mafiosa è colui senza il cui apporto quotidiano, o comunque assiduo, l’associazione non raggiungerebbe i suoi scopi o non li raggiungerebbe con la dovuta speditezza.
E’, quindi, partecipante all’associazione colui che agisce nella “fisiologia” della vita corrente del sodalizio, al contrario del concorrente esterno che non ne fa parte e che non è chiamato “a far parte”, ma al quale si rivolge sia per colmare vuoti temporanei in un determinato ruolo, sia, soprattutto, nel momento in cui la “fisiologia” dell’associazione entra in fibrillazione, attraversando una fase “patologica” che, per essere superata, richiede il contributo temporaneo, limitato anche ad un unico intervento, del terzo.

L’argomento, che ha formato oggetto di successive elaborazioni dottrinarie e giurisprudenziali, ha trovato ulteriore, completa, condivisibile trattazione nella recente sentenza di questa Corte n. 22327 del 2003, Carnevale.

Nell’occasione le Sezioni Unite hanno affermato che l’appartenenza di taluno ad un’associazione criminale dipende anche dalla volontà di coloro che già vi partecipano. Il relativo accordo può risultare anche solo di fatto, purché vi siano elementi indicativi di una volontà di inclusione del soggetto partecipe.

Quindi hanno chiarito che la tipologia della condotta di partecipazione è delineata dal legislatore sotto l’espressione “chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso” (art. 416 bis, comma 1). Tenuti presenti i connotati assegnati all’associazione mafiosa dal terzo comma dell’art. 416 bis, deve intendersi che “fa parte” di questa chi si impegna a prestare un contributo alla vita del sodalizio, avvalendosi (o sapendo di potersi avvalere) della forza di intimidazione del vincolo associativo e delle condizioni di assoggettamento e di omertà che ne derivano per realizzare i fini previsti. Al contempo, l’individuazione di una espressione come “fa parte” non può che alludere ad una condotta che può assumere forme e contenuti diversi e variabili così da delineare una tipica figura di reato “a forma libera”, consistendo in un contributo apprezzabile e concreto, sul piano causale, all’esistenza o al rafforzamento dell’associazione e, quindi, alla realizzazione dell’offesa tipica agli interessi tutelati dalla norma incriminatrice. Sicché a quel “far parte” dell’associazione, che qualifica la condotta del partecipe, non può attribuirsi il solo significato di condivisione meramente psicologica del programma criminoso e delle relative metodiche, bensì anche quello, più pregnante, di una concreta assunzione di un ruolo materiale all’interno della struttura criminosa, manifestato da un impegno reciproco e costante, funzionalmente orientato alla struttura e alla attività dell’organizzazione criminosa: il che è espressione di un inserimento strutturale a tutti gli effetti in tale organizzazione nella quale si finisce con l’essere stabilmente incardinati. Ne deriva che, se a quel “far parte” dell’associazione si attribuisce il significato testé detto, si deve conseguentemente affermare che, da un punto di vista logico, la situazione di chi “entra a far parte di una organizzazione” condividendone vita e obiettivi, e quella di chi, pur non entrando a farne parte, apporta dall’esterno un contributo rilevante alla sua conservazione e al suo rafforzamento, sono chiaramente distinguibili.

In definitiva, la figura del partecipe e la relativa condotta tipica sono configurabili non in virtù della mera assunzione di uno “status”, ma bensì del contributo arrecato al sodalizio criminale da chi è stabilmente incardinato nella struttura associativa con determinati, continui compiti anche per settori di competenza.

L’elemento psicologico consiste nella consapevolezza e volontà di associarsi con lo scopo di contribuire alla realizzazione del programma dell’associazione. Non è richiesto che il concorrente voglia realizzare i fini propri dell’associazione, ma è sufficiente che abbia la consapevolezza che altri fa parte e vuole far parte dell’associazione e agisce con la volontà di perseguirne i fini.

Accanto alla partecipazione intesa come “intraneità” all’associazione, le citate Sezioni Unite hanno riaffermata la configurabilità del concorso esterno, ridefinendone i limiti.

Esso sussiste in capo alla persona che, priva della “affectio societatis” e non inserita nella struttura organizzativa del sodalizio, fornisca un contributo concreto, specifico, consapevole e volontario, a carattere indifferentemente occasionale o continuativo, purché detto contributo abbia un’effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento dell’associazione e l’agente se ne rappresenti, nella forma del dolo diretto, l’utilità per la realizzazione, anche parziale, del programma criminoso.

Nell’occasione le Sezioni Unite hanno anche precisato che la prova del concorso esterno nel reato associativo deve avere ad oggetto gli elementi costitutivi della fattispecie delittuosa, con la conseguenza che esulano dall’ipotesi in esame situazioni quali la “contiguità compiacente” o la “vicinanza” o la “disponibilità” nei riguardi del sodalizio o di suoi esponenti, anche di spicco, quando non siano accompagnate da positive attività che abbiano fornito uno o più contributi suscettibili di produrre un oggettivo apporto di rafforzamento o di consolidamento sull’associazione o quanto meno su un suo particolare settore.

Non basta, quindi, neppure ai fini del concorso esterno, la mera disponibilità a fornire il contributo richiesto dall’associazione, ma occorre l’effettività di tale contributo, cioè l’attivazione del soggetto nel senso indicatogli dal sodalizio criminoso.

Queste ultime affermazioni assumono particolare rilievo in quanto delineano in maniera corretta i precisi limiti del reato in esame (art. 416 bis c.p.p.) e, apparendo del tutto conformi al dettato normativo e all’inquadramento sistematico del reato stesso, risultano pienamente applicabili al caso di specie.
Mette conto, peraltro, di rilevare, per completezza di indagine, che, in precedenza, l’orientamento giurisprudenziale non era consolidato sul punto e tendeva prevalentemente ad una interpretazione più estensiva dei limiti stessi.

Ad esempio, Cass. n. 6992 del 1992, Altadonna, ha ritenuto configurabile come partecipazione effettiva, e non meramente ideale, ad una associazione per delinquere (nella specie di tipo mafioso), anche quella di chi, indipendentemente dal ricorso o meno a forme rituali di affiliazione, si sia limitato a prestare la propria adesione, con impegno di messa a disposizione, per quanto necessario, della propria opera, all’associazione anzidetta, giacché anche in tal modo il soggetto viene consapevolmente ad accrescere la potenziale capacità operativa e la temibilità dell’organizzazione delinquenziale.

Il diverso e più ampio orientamento è ben espresso anche da Cass. n. 4976 del 1997, Accardo, secondo cui la condotta di partecipazione all’associazione per delinquere di cui all’art. 416 bis c.p. è a forma libera, nel senso che il comportamento del partecipe può realizzarsi in forme e contenuti diversi, purché si traduca in un contributo non marginale ma apprezzabile alla realizzazione degli scopi dell’organismo: in questo modo, infatti, si verifica la lesione degli interessi salvaguardati dalla norma incriminatrice, qualunque sia il ruolo assunto dall’agente nell’ambito dell’associazione; ne consegue che la condotta del partecipe può risultare variegata, differenziata, ovvero assumere connotazioni diverse, indipendenti da un formale atto di inserimento nel sodalizio, sicché egli può anche non avere la conoscenza dei capi o degli altri affiliati essendo sufficiente che, anche in modo non rituale, di fatto si inserisca nel gruppo per realizzarne gli scopi, con la consapevolezza che il risultato viene perseguito con l’utilizzazione di metodi mafiosi.
 
In relazione alla prova della partecipazione all’associazione va condiviso l’orientamento espresso da Cass. n. 1631 de 2000, Bonavota, secondo cui, in siffatto tema, la prova logica costituisce il fondamento della dimostrazione dell’esistenza del vincolo associativo. E, invero, occorre procedere all’esame delle condotte criminose, ciascuna delle quali può non essere dimostrativa del detto vincolo, sicché solo attraverso un ragionamento logico può desumersi correttamente che le singole intese dirette alla conclusione dei vari reati costituiscono espressione del programma delinquenziale, oggetto della stessa associazione.

Infatti, come ha ben spiegato Cass. n. 1525 del 1997, Pappalardo, la prova dell’esistenza della volontà partecipativa è desunta per lo più dall’esame d’insieme di condotte frazionate ciascuna delle quali non necessariamente dimostrativa della partecipazione stessa e attraverso un ragionamento dal quale si possa dedurre che le singole intese dirette alla conclusione dei vari reati costituiscono l’espressione del programma delinquenziale oggetto dell’associazione.

Ciò è rilevante anche sotto il profilo della motivazione, perché costituisce vizio della medesima, censurabile in Cassazione, sia la parcellizzazione della valenza significativa di ogni singola fonte di prova, sia l’attribuzione di una valenza assolutamente neutra sul piano indiziario all’indicazione di appartenenza al sodalizio mafioso da parte di un collaborante. Non solo perciò l’indicazione siffatta di appartenenza al sodalizio proveniente dal collaborante è utilizzabile sul piano indiziario, ma la chiamata in correità riferita a fatti specifici e non supportata dai necessari elementi di conferma, proveniente tuttavia da soggetto intrinsecamente attendibile ed attendibile essa stessa, può essere utilizzata, quale elemento indiziario, ai fini dell’accertamento del reato associativo, quantomeno nel senso del coinvolgimento del soggetto in un determinato contesto ambientale e del suo apporto alla vita della consociazione, anche se non sarà possibile fondare esclusivamente su tale elemento di indizio un’affermazione di colpevolezza per il reato associativo.

Naturalmente l’elaborazione giurisprudenziale ha esaminato anche il problema della permanenza del singolo nell’associazione, ovvero della dissociazione del partecipante.

Secondo il condivisibile orientamento espresso da Cass. n. 3089 del 1999, Caruana, ai fini della configurabilità del delitto di partecipazione ad associazione mafiosa, il vincolo associativo tra il singolo e l’organizzazione si instaura nella prospettiva di una futura permanenza in essa a tempo indeterminato e si protrae sino allo scioglimento della consorteria, potendo essere significativo della cessazione del carattere permanente del reato soltanto l’avvenuto recesso volontario, che, come ogni altra ipotesi di dismissione della qualità di partecipe, deve essere accertato caso per caso in virtù di condotta esplicita, coerente e univoca e non in base ad elementi indiziari di incerta valenza.

Questo orientamento è stato ulteriormente precisato da Cass. n. 22897 del 2001, Riina, secondo cui la rottura del vincolo associativo che lega taluno al sodalizio criminoso può avvenire attraverso la prestazione di un’attività di segno contrario a quella associativa, consistente in un contributo concreto alla difesa sociale dal sodalizio delinquenziale, essendo irrilevante per l’ordinamento giuridico un’abiura o un’altra forma di manifestazione di pentimento che assume carattere indicativo nel solo contesto culturale mafioso.

In altri termini, a differenza di quanto si deve ritenere nell’ipotesi di concorso esterno, il partecipante organicamente inserito nel sodalizio criminoso non cessa di farne parte in virtù di mera inattività, ma occorre un comportamento concreto ed effettivo che dimostri inequivocabilmente la dismissione della in precedenza acquisita qualità di associato (si vedano, in proposito, anche Cass. n. 3319 del 1994, Contempo Scavo e Cass. n. 1896 del 1988, Abbate).

L’orientamento è univoco posto che alcune decisioni, formalmente difformi, solo apparentemente si sono discostate da esso, come Cass. n. 3231 del 1995, Mastrantuono, secondo cui, ai fini della configurabilità del reato di partecipazione ad associazione per delinquere, comune di tipo mafioso, non è sempre necessario che il vincolo associativo fra il singolo e l’organizzazione si instauri nella prospettiva di una sua futura permanenza a tempo indeterminato, e per fini di esclusivo vantaggio dell’organizzazione stessa, ben potendosi, al contrario, pensare a forme di partecipazione destinate, “ab origine”, ad una durata limitata nel tempo e caratterizzate da una finalità che, oltre a comprendere l’obiettivo vantaggio del sodalizio criminoso, in relazione agli scopi propri di quest’ultimo, comprenda anche il perseguimento, da parte del singolo, di vantaggi ulteriori, suoi personali, di qualsiasi natura, rispetto ai quali il vincolo associativo può assumere anche, nell’ottica del soggetto, una funzione meramente strumentale, senza per questo perdere nulla della sua rilevanza penale. E ciò senza necessità di ricorrere, in detta ipotesi, alla diversa figura giuridica del cosiddetto “concorso eventuale esterno” del singolo nella associazione per delinquere.

Infatti trattasi di decisioni attinenti ad ipotesi particolari come dimostra la stessa sentenza citata, che riguardava i rapporti di collaborazione instauratisi fra un esponente politico e un’organizzazione camorristica, in cui la Corte, in base ai suddetti principi, ha riconosciuto legittimamente configurabile, a carico del primo, il reato di partecipazione alla detta associazione.

D’altra parte, la permanenza a tempo indeterminato nell’associazione appare in linea con il carattere pacificamente ritenuto permanente del reato in esame, il quale non si esaurisce nell’atto con cui l’associato presta la sua adesione all’organizzazione, ma perdura nel tempo finché l’adesione non venga meno mediante la dissociazione. Infatti il bene giuridico tutelato dalla norma sulla materia è il pericolo di turbativa dell’ordine pubblico derivante potenzialmente dall’organizzazione criminosa, pericolo che non cessa fino a quando essa è in vita o, comunque, con riferimento specifico all’attività partecipativa del singolo aderente, finché questi non sia uscito dall’organizzazione facendo venir meno il suo apporto personale o non sia stato espressamente estromesso.

Come si è appena visto, l’elaborazione giurisprudenziale non ha trascurato i rapporti tra politica e criminalità organizzata. La posizione dell’uomo politico che ottenga vantaggi elettorali dall’alleanza con sodalizi mafiosi è stata per lo più inquadrata, diversamente da quanto ritenuto dalla risalente sentenza appena sopra citata, nello schema del concorso esterno, anche se con riferimento ad ipotesi peculiari.
 
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