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marzo 08, 2012

Sindacalismo fascista (prima parte).

sindacalismo_fascista_Corridoni_con_MussoliniIl sindacalismo fascista ha i suoi primordi nel magma del movimentismo sindacale dei primi due decenni del XX secolo: in particolare esso trova i suoi riferimenti culturali prima nella componente rivoluzionaria del sindacalismo socialista, che portò alla dirigenza del partito diversi esponenti e Benito Mussolini alla direzione dell'Avanti!, poi nell'Unione Sindacale Italiana (USI), soprattutto nella veste dell'attivissima sezione milanese retta da Filippo Corridoni ed in quelle che saranno le sezioni più agguerrite del sindacalismo interventista di tutta Italia.
Numerosi, pur con alcuni bassi, sono gli scioperi, le manifestazioni di piazza, gli scontri ed i comizi cui parteciparono Mussolini ed i dirigenti del fascismo a fianco, o anche in qualità stessa, di sindacalisti rivoluzionari.

    « In Italia non sarà possibile nessuna forma di sindacalismo fino a quando il socialismo non sarà abbattuto. »
   
(Filippo Corridoni a Curzio Malaparte a Milano poco prima di partire per il Carso, giugno 1915)

Un altro forte legame fu, dal 1915-1916 e fino al 1919-1920, quello con la Unione Italiana del Lavoro (UIL), da essi creata e di ispirazione sindacalista rivoluzionaria, diretta inizialmente da Edmondo Rossoni.
La nuova formazione sindacale, nel fermento dell'interventismo nei confronti della Grande Guerra, tentò di operare una prima sintesi all'interno dell'immenso magma rivoluzionario italiano, combattuto ormai da anni tra le esigenze sociali e quelle nazionaliste del popolo. In particolare si verificò una congiunzione con le teorie di imperialismo operaio di Enrico Corradini (Associazione Nazionalista Italiana) e lo sviluppo del produttivismo nazionale, grazie anche al Popolo d'Italia di Benito Mussolini, pervenendo all'idea non tanto di negare la lotta di classe per difendere gli interessi di categoria, quanto di ricomporli tutti all'interno del comune interesse superiore nazionale.
sindacalismo_fascistaFontana_Dalmine
Al suo interno la UIL portava però già i sintomi di quella che fu una battaglia destinata a concludersi più tardi, durante il sindacalismo fascista vero e proprio: quella tra la visione di un sindacalismo legato all'azione politica, appoggiata principalmente da Edmondo Rossoni, e quella "indipendentista" di Alceste De Ambris.

Primo sfogo di queste evoluzioni avvenne il 16 marzo 1919 al Dalmine, dove si verificò la prima occupazione con autogestione operaia della storia italiana, organizzata dai sindacalisti rivoluzionari. Il fatto eclatante che destò scalpore fu però soprattutto la continuazione della produzione, d'accordo con l'ottica produttivista che aveva acquisito il movimento: gli operai autorganizzati continuarono infatti il lavoro, issando sulla fabbrica il tricolore nazionale.

Due giorni dopo lo stesso Mussolini fu in visita agli stabilimenti:

    « Voi oscuri lavoratori del Dalmine, avete aperto l'orizzonte. È il lavoro che parla in voi, non il dogma idiota o la chiesa intollerante, anche se rossa, è il lavoro che ha consacrato nelle trincee il suo diritto a non essere più fatica, miseria o disperazione, perché deve diventare gioia, orgoglio, creazione, conquista di uomini liberi nella patria libera e grande oltre i confini »
   
(Benito Mussolini, Discorso del Dalmine, 20 marzo 1919, in "Tutti i discorsi - anno 1919")
In un primo momento la posizione di De Ambris e della sua UIL fu la più apprezzata da Mussolini, aprendo nel periodo 1919-1920 una forte convergenza tra i due, con il secondo che sostenne apertamente la UIL dalle colonne de Il Popolo d'Italia ed il primo che dette un apporto considerevole al programma dei Fasci Italiani di Combattimento, costituiti il 23 marzo 1919 e dai quali prenderà spunto il fascismo durante la fase governativa.
È da questo connubio che, infatti, si costituisce in maniera strutturata il sindacalismo fascista, i cui protagonisti, dapprima immersi nei movimenti sindacalisti di varia estrazione sopra descritti, andarono a creare l'ossatura del nuovo movimento insieme agli interventisti futuristi, ad Arditi e reduci di guerra, nazionalisti e squadristi.
Fra i maggiori esponenti di questo "sindacalismo squadrista", che affiancò i sindacalisti "puri", a cavallo tra gli anni dieci e venti Italo Balbo, Michele Bianchi, Gino Baroncini ma, soprattutto, Dino Grandi e lo squadrismo bolognese vicino agli ambienti de "L'Assalto", portatori di uno dei più genuini tratti del fascismo di sinistra, basato particolarmente (a Bologna) sulle rivendicazioni contadine, l'allargamento della piccola proprietà agricola ed al concetto de "la terra a chi la lavora".

Alla fine del 1920 l'armonia tra sindacalismo rivoluzionario e fascismo sansepolcrista si spezzò quando, in conseguenza della grave sconfitta elettorale della fine del 1919, Mussolini operò la strategia della virata a destra per aprirsi maggiori spazi politici e, staccandoli dalla UIL, creò i Sindacati economici, che nel gennaio 1922 diventeranno poi la Confederazione nazionale delle Corporazioni sindacali fasciste dirette da Rossoni.
La crisi tra i due movimenti si attuò essenzialmente sul nodo della concezione del rapporto tra economia e politica. Da una parte il fascismo, che riteneva fondamentale che ogni dinamica attraversi la nazione sia controllata dallo Stato, dall'altra i sindacalisti rivoluzionari, che vedevano questa posizione come antitetica ai propri canoni libertari ed autonomisti[14], concependo la nazione come identità e sostanza storica di un popolo, ma lo Stato come sistema di potere di una classe esclusiva.

sindacalismo_fascista_Mussolini_a_Dalmine_20_marzo_1919
    « Il sindacalismo rivoluzionario, portando il suo contributo decisivo alla determinazione dell'Italia per l'intervento nella guerra, salvò l'onore dei lavoratori italiani e gettò le premesse in virtù delle quali l'organizzazione del lavoro è oggi, su piede di uguaglianza con tutte le altre forze economiche, elemento fondamentale dello Stato Corporativo. In questo senso soltanto può essere affermata la derivazione del movimento sindacale fascista dal vecchio sindacalismo rivoluzionario. »
   
(Tullio Masotti)
Nel gennaio 1922 si tenne il I Convegno sindacale di Bologna, in cui si scontrarono le due visioni principali, già emerse in passato, riguardanti il grado di dipendenza dei sindacati nei confronti della politica e, in questo caso, del neocostituito Partito Nazionale Fascista (PNF). Si scontrarono quindi la visione "autonomista" di Edmondo Rossoni e di Dino Grandi e quella "politica" di Massimo Rocca e Michele Bianchi, tra le quali sarà vincente la seconda.

A Bologna vennero inoltre affermati i principi basilari della politica corporativa, con la conferma del superamento della lotta di classe nei confronti della collaborazione e dell'interesse nazionale su quello individuale o di settore, e la nascita della Confederazione nazionale delle Corporazioni sindacali, una nuova formazione antisocialista ed anticattolica, costituita nella forma di sindacati autonomi formati da cinque Corporazioni suddivise per categorie lavorative e non ancora (lo saranno nel 1934) sindacati misti lavoratori-datori di lavoro. Come nel sindacalismo rivoluzionario, inoltre, le corporazioni dovevano riunire tutte le attività professionali che identificavano la loro "elevazione morale e econoica (...) con il dovere imprescindibile del cittadino verso la Nazione".

    « La nazione, sintesi superiore di tutti i valori materiali e spirituali della razza, è al di sopra degli individui, dei gruppi e delle classi. Individui, gruppi e classi sono gli strumenti di cui la nazione si serve per migliorare le proprie condizioni. Gli interessi individuali e di gruppo acquistano legittimità a condizione che si realizzino nell'ambito dei superiori interessi nazionali. »
   
(Articolo 4 della Carta dei principi delle corporazioni)
Sulla Confederazione si svilupparono polemiche anche negli ambienti del sindacalismo internazionale: la sinistra operaia internazionale, in sede di Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), contestava il titolo alla rappresentanza operaia alle corporazioni fasciste e, quindi, la possibilità di partecipare all'assemblea. La polemica non venne però accettata, e l'ILO permise alle Corporazioni di partecipare alle sedute senza interruzioni nel rinnovo del mandato.

In sede congressuale Rossoni dichiarò l'esistenza di una linea di continuità tra il sindacalismo rivoluzionario, il sindacalismo fascista ed il corporativismo: per il sindacalismo fascista, infatti, l'ultimo era legato al primo sia per il comune intendimento del concetto di "rivoluzione" che, al di là dell'aspetto della rivolta popolare, in ambito lavorativo ritenevano rivestisse il significato di "sopravvento di superiori capacità produttive"; inoltre, ugualmente, avevano l'obbiettivo di innalzare il "proletario" (nell'accezione negativa del termine) al rango di "lavoratore" inserito a pieno titolo nella vita nazionale.

   « Il sindacalismo deve essere nazionale ma non può essere nazionale per metà: esso deve comprendere capitale e lavoro (...) e sostituire al vecchio termine proletariato, quello di lavoratore ed all'altro, di padrone, la parola dirigente, che più alta, più intellettuale, più grande. »
   
(Edmondo Rossoni, 18 gennaio 1926, Congresso dei Sindacati intellettuali fascisti.)
sindacalismo_fascista_DinoGrandi
 
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