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agosto 31, 2010

I pastori vanno al mare: quarant'anni fa gli ultimi pastori sardi abbandonavano quelle colline brulle e rocciose .
Quarant'anni fa gli ultimi pastori sardi abbandonavano quelle colline brulle e rocciose dove poco dopo sarebbe nata la Costa Smeralda. Allora non conoscevano il valore del paradiso che mettevano nelle mani di abili forestieri al prezzo di pochi denari. Da ieri però questo pezzo di Sardegna è tornato per qualche ora in mano ai locali che con la manifestazione dei pastori hanno invaso le viuzze tranquille, pulite e ornate di siepi di macchia mediterranea ben curate.

Quasi duemila allevatori provenienti da tutta l'isola si sono ritrovati a Porto Rotondo (patria estiva dei vip italiani e internazionali), a qualche chilometro di distanza da Villa Certosa, residenza del presidente del consiglio Silvio Berlusconi, per urlare ordinatamente contro la politica regionale e nazionale: «Non ci arrenderemo mai».

Da un palco improvvisato sul cassone di un camion, Felice Floris, leader del Movimento pastori sardi (Mps), ha infiammato gli animi dei partecipanti a cui ha chiesto un giuramento di fedeltà. «È un momento difficile - ha spiegato Floris - e per questo voglio da voi pastori un attestato di fedeltà e voglio che chiunque si tiri indietro venga considerato un traditore». La piazza applaude e tutti lo riconfermano come il loro leader. Sono le 11.30 e sotto un sole cocente parte il corteo.

Le forze dell'ordine in assetto antisommossa aprono la strada ai manifestanti, che con campanacci e fischi iniziano a scandire numerosi slogan indirizzati soprattutto contro l'assessore all'agricoltura sardo, Andrea Prato. In tanti ne chiedono le dimissioni poiché, accusano i dimostranti, non è dalla parte dei pastori, ma da quella della lobby degli industriali del formaggio. «Prato non è stato votato dai sardi (è un assessore tecnico, ndr) e per questo non ci rappresenta - ha detto Diego Manca, di Bitti (Nuoro) - deve essere il presidente regionale, Ugo Cappellacci, a darci le risposte, perché lui conosce la nostra condizione». Le contestazioni partono anche contro i sindacati di categoria con la Coldiretti in cima alla lista. «Non ci rappresentano più - ha spiegato Mario Deriu di Ittiri (Sassari) - io non mi tessero da due o tre anni, eppure mi continuano ad arrivare le sottrazioni per l'iscrizione Coldiretti». Al fianco dei pastori anche una delegazione degli operai della Vinyls, «scarcerati per un giorno dall'isola dei cassintegrati dell'Asinara», che Floris ha definito dei «guerrieri disarmati perché ci vuole un infinito coraggio nel rimanere esiliati 180 giorni dentro un ex penitenziario».

Una regione alle corde la definiscono ormai i manifestanti, che per la prima volta uniscono e condividono la propria lotta con gli operai dell'industria. La reazione dei villeggianti che incrociano il corteo è di vario genere. C'è chi filma il tutto con il telefonino, chi applaude al passaggio e chi si lamenta di tanto baccano. All'arrivo nel porto turistico alcune imbarcazioni iniziano a suonare i clacson in segno di solidarietà e i pastori salutano compiaciuti. Come annunciato prima della partenza, nessuno si è staccato dal gruppo per raggiungere Villa Certosa e gli stessi funzionari di polizia si sono congratulati con gli organizzatori per l'ottima riuscita dell'iniziativa. Il prossimo appuntamento adesso sarà fra qualche settimana a Cagliari, dove i pastori porteranno anche le loro famiglie. «O Cagliari o morte», scandisce Floris dal megafono mentre numerosi sindaci si alternano negli interventi. «Se muore la pastorizia - ha incalzato il sindaco di Busachi (Oristano), Giovanni Orrù - scompare anche la nostra sardità, la nostra cultura e la nostra storia».

Sempre ieri sono scesi in piazza, nel capoluogo sardo, centinaia di manifestanti della Coldiretti che in un comunicato ha spiegato le ragioni della protesta: «Occorre recuperare i ritardi e le debolezze sul piano istituzionale che rischiano di lasciare spazio a comportamenti speculativi a livello industriale che mettono in pericolo la stabilità sociale di interi territori». In un intervento non previsto di fronte al palazzo regionale il presidente Cappellacci ha detto: «La Regione è disponibile a trovare gli strumenti concreti per cercare di risolvere i problemi del comparto stiamo lavorando in vista dell'incontro con il governo previsto per il 6 settembre e gli assessori dell'agricoltura e della programmazione si stanno impegnando per trovare le risorse adeguate al settore». Alcuni passi che comunque non rappresentano tutto il mondo agropastorale, accusano i manifestanti di Porto Rotondo, poiché la regione dovrebbe invitare al tavolo delle trattative anche i movimenti che vengono dal basso come l'Mps e che oggi rappresenterebbero, almeno dal numero dei partecipanti alle manifestazioni, l'anima più viva della protesta.
fonte: Il Manifesto

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agosto 30, 2010

Ecologia e computer: alcune riflessioni.
Prendo spunto dalle seguenti misurazioni, eseguite da un lettore di Linux Journal, indicano la durata delle batterie in un laptop Fosa 486DX2-66.

Le misurazioni sono state ripetute più volte e ne è stata fatta la media...

BATTERY LIFE

OpSystem Notes Duration (min)

Windows 3.1 Sparse HD use (solitaire, majong) 81
MSDOS 6.22 B&W use only, infrequent HD use 82
OS/2 Warp Misc Programs, moderate HD use 115
Linux B&W & Colour C programming, 121
heavy HD (swap) use

Considerazioni di LJ: c'è una ragione validissima perché accade ciò: Linux e OS/2 usano l'istruzione ``halt'' per interrompere il lavoro della CPU quando è libera. DOS e Windows non lo fanno. Inoltre ciò ha una diretta ripercussione sulla temperatura di funzionamento della CPU, che in Linux e OS/2 è molto meno calda che in DOS/Win!!! Alcuni mesi or sono una persona ha collegato un termometro alla CPU e ha postato i risultati nelle news...

Ciò conferma pienamente quella che fino a ieri era una mia impressione: che le pile del mio laptop si scaricano più velocemente (e che il suddetto scalda di più) quando viene usato con Windows...

Considerazioni personali: sembra che alcune ditte produttrici di software di base per personal computer ci abbiano sempre un po' preso in giro riguardo all'argomento "risparmio energetico" e, invece di migliorare il modo di funzionamento dei propri prodotti abbiano preferito incrementare il mercato degli accessori ``green'', nonchè, più o meno direttamente, il loro rendiconto (guarda caso, quante di queste ditte producono e vendono il software necessario a "risparmiare energia" nei laptop ?). La stessa leggerezza incosciente che ha permesso che per anni si costruissero ditte inquinanti e si utilizzassero nell edilizia materiali altamente cancerogeni fa in modo che l'utente ignaro sia convinto di fare del bene all'ambiente solamente perchè così gli stanno facendo credere.

Purtroppo viviamo in una società in cui l'apparenza regna sovrana e i numeri e le immagini vengono troppo facilmente strumentalizzati. Si pensi al detersivo che "lava il 50% di piatti in più" o allo shampoo che viene propagandato come una lozione di bellezza per capelli (cosicchè sembrerebbe che se uno passa la vita a lavarsi i capelli col prodotto xxx alla fine se ne ritroverà in testa moltissimi in più :-)

Purtroppo a molta gente ``sensibile all'ambiente'' (gli stessi che magari ogni fine settimana ne vengono sui colli a inzozzarceli coi rifiuti oppure a correre con potenti 4x4) crede che la tutela per l'ambiente possa limitarsi solamente ad avere lo zainetto col panda oppure a comprare il monitor col logo EPA, oggetti così carino che è impossibile non averli..., piuttosto che realizzare un vero risparmio energetico, che si porta avanti con la propria testa, non con quella degli altri.

Noi poveri illusi stiamo ``comprando'' l'ambiente, spendendo oltretutto un bel mucchio dei nostri soldi, solo perché da qualche anno a questa parte va di moda il prodotto ecologico !

Considerato che un computer è costruito per rimanere SEMPRE ACCESO, una diminuzione del 30% del consumo dovuta ESCLUSIVAMENTE al sistema operativo (come nel caso che abbiamo di fronte) mi pare molto più importante rispetto all'uso di qualchessia tool di risparmio energetico, anche perchè un hard disk che si spegne e riparte continumente consuma di sicuro una quantità di energia non inferiore rispetto che rimanendo in moto continuo e regolare, inoltre dura molto di più (ma siamo pur sempre figli di quella società che insegna: "butta il vecchio e compra il modello nuovo").

Il vero risparmio energetico però è una cosa che non vende bene, anzi, ai più da anche fastidio, in quanto è faticoso da fare e presuppone regolarità, impegno e piccoli accorgimenti quotidiani da parte di tutti, anche personali (e questo è fastidioso, in quanto è molto più semplice continuare a sporcare ed aspettare che i veri WWW o Greenpace si occupino del problema al posto nostro). Per questo le aziende non si interessano del reale consumo di un oggetto, a meno che non aiuti a vendere l'oggetto stesso.

Ben vengano comunque i monitor risparmiosi o i fustini biodegradabili, purchè:

1) ci dimostrino scientificamente che funzionano (e per questo occorrono dati e misurazioni incontestabili)

2) non siano una scusa per autoesentarci dal fare la nostra parte quotidianamente.

Che il mercato se ne freghi beatamente del vero risparmio energetico è palese, non tanto per la frittata fatta cuocere sopra il laptop, ma perchè lo vediamo ogni giorno, guardando i nostri fiumi reduci da battaglie contro anni di depuratori non costruiti o i nostri colli dopo che sono passati i vandali della domenica...

che non ci salti tuttavia in mente ora di dare solamente alle aziende la colpa di tutto... sarebbe troppo semplice...

I contributo più semplice che tutti noi possiamo dare è quello di evitare di lasciare accesa una luce inutilmente (che consuma molto di più di un computer), di mettersi in tasca le carte invece di lasciarle in giro per i monti, di fare una raccolta differenziata dei rifiuti e utilizzare, ove possibile, gli scarti organici come concime per i fiori (però alcuni obietteranno che "puzzano")... un piccolo impegno quotidiano, che deve divente una abitudine.

Il rispetto per la natura, che poi è rispetto per gli altri e per le generazioni che verranno, è un dovere sacrosanto di ogni individuo e io sinceramente non me la sento di lasciare ai miei figli un mondo sporco e peggiore di quello che ho trovato. Verrà un momento in cui, a ragione, verranno a chiederci di rendere atto di ciò che abbiamo fatto e in quel momento non ci si potrà tirare indietro.



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agosto 28, 2010

L'Italia top secret delle armi chimiche. Migliaia di tonnellate di bombe letali prodotte dal fascismo finite in mare davanti Ischia e la Puglia.
Migliaia di tonnellate di bombe letali prodotte dal fascismo. Finite in mare davanti Ischia e la Puglia. Dove continuano a seminare i loro veleni. Un libro ricostruisce la storia degli ordigni più orribili

Questa è la storia di un segreto di cui tutti si vergognano. Ministri, generali, industriali, professori lo hanno difeso con il silenzio per generazioni, fino a farne perdere la memoria e farlo svanire nel nulla. Il protagonista di questo libro è un fantasma immortale: ancora oggi continua ad uccidere, lo fa da ottant'anni. Ha divorato vittime innocenti in Libia e in Etiopia, poi si è accanito sulla salute degli italiani.

È entrato nella nostra aria, nella nostra acqua, nella nostra terra. Ed è ancora lì: alle porte di Roma, alla periferia di Milano, nel golfo di Napoli, nel mare di Bari, sulla costa di Pesaro, sulle rive del Lago Maggiore, nei fiumi d'Abruzzo. Ovunque.

Progettato per essere invisibile, prosegue indisturbato nella missione assassina per cui è stato generato. Semina la morte, soffoca i corpi con malattie incurabili, di cui nessuno vuole indagare l'origine.

Questa è la storia dei veleni - creati dalla dittatura fascista e protetti dalla Repubblica democratica - che hanno trasformato gli angoli più belli della Penisola in cimiteri di vampiri che minacciano di uscire dalle loro bare in qualunque momento. È la storia di esperimenti orribili e dimenticati: di batteri e tossine trasformati in bombe provate sulle spiagge del Lazio, della Liguria e della Sardegna, di nubi di bacilli scagliate sui combattenti spagnoli che lottavano per la libertà, di insetti mutati in killer da scienziati nazisti senza scrupoli.

Questa è la storia di industriali che si sono arricchiti distillando sostanze letali, entrando in società con i finanziatori dell'Olocausto, violando qualunque legge. Di decine di fabbriche che, grazie al segreto di Stato, hanno scaricato il loro sangue marcio nei fiumi, nei terreni, nelle riserve idriche. Di impianti mai bonificati, veri e propri scheletri tossici che costellano il nostro Paese.

L'impianto di Civitavecchia che imprigiona le scorie velenose in cilindri di cemento L'impianto di Civitavecchia che imprigiona le scorie velenose in cilindri di cemento.

Ministri eletti dal popolo italiano e generali delle nostre forze armate hanno deliberatamente taciuto, coprendo con il silenzio gli arsenali nascosti nei boschi della Tuscia, dell'Umbria, della Maremma, occultando gli stabilimenti proibiti della provincia di Roma e di Milano. Una storia infinita, perché ancora oggi le scorie di questi arsenali non hanno trovato una tomba sicura e continuano ad accumularsi in un bosco di Civitavecchia. Questo è un viaggio nell'abisso più nero del nostro Paese: la storia delle armi chimiche italiane. Attraverso i documenti inediti ritrovati negli archivi britannici, americani e tedeschi si è ricostruito un capitolo vergognoso della nostra Storia.

Attenzione: non è storia passata, è il nostro presente. Le armi chimiche sono state progettate per essere immortali. Sono cancerogene e possono anche causare mutazioni genetiche. Ma soprattutto le armi chimiche sopravvivono a lungo nel terreno e nell'acqua, fedeli alla loro missione assassina: le migliaia di bombe che giacciono nel mare di Ischia, di Manfredonia, di Foggia, di Molfetta possono ancora uccidere. Eppure questo segreto è stato difeso con ogni strumento.

Ancora oggi non si riesce a stabilire con esattezza quante armi chimiche siano state prodotte in Italia tra il 1935 e il 1945. Il piano varato da Benito Mussolini all'inizio della guerra prevedeva la costruzione di 46 impianti per distillare 30 mila tonnellate di gas ogni anno; i documenti britannici analizzati in questo libro - decine di file con rapporti segreti, relazioni diplomatiche, verbali di riunioni del governo, minute di interventi di Winston Churchill e altri atti riservati che riguardano un periodo dal 1923 al 1985 - sostengono che si possa trattare di una quantità «tra le 12.500 e le 23.500 tonnellate » ogni anno, ancor di più durante l'occupazione nazista del Nord. Si trattava di iprite, che divora la pelle e uccide togliendo il respiro. Di fosgene, che ammazza provocando emorragie nei polmoni. Di miscele a base di arsenico, che entrano nel sangue fino a spegnere la vita.

A questo arsenale sterminato si sono aggiunte le armi schierate al Nord dai tedeschi e quelle importate al Sud dagli americani e dagli inglesi. L'ultimo saggio pubblicato negli Usa da Rick Atkinson sostiene che solo gli statunitensi dislocarono negli aeroporti del Sud 200 mila bombe chimiche. Fu proprio durante uno di questi trasferimenti nel porto di Bari che nel dicembre 1943 una nave piena di iprite esplose, contaminando acqua e aria: il disastro, il più grave mai avvenuto nel mondo occidentale, venne tenuto nascosto. Winston Churchill in persona ordinò di tacere, e in tal modo i feriti non hanno potuto ricevere cure adeguate. Ma dei cittadini baresi aggrediti dal gas non si è mai saputo nulla. Quanti hanno ereditato leucemie, tumori, devastazioni ai polmoni? L'inferno di Bari è stato un danno collaterale nell'equilibrio del terrore.

Come è accaduto con le testate nucleari durante la Guerra fredda, tutti gli eserciti dovevano possedere armi chimiche per impedire che i nemici le usassero, temendo la rappresaglia. E come è accaduto per le atomiche, solo i capi di governo decidevano la sorte di queste armi che non dovevano cadere in mano agli avversari. Così fu Hitler a dare il via libera alla prima di tante operazioni nefaste: affondare nell'Adriatico oltre 4.300 grandi bombe tossiche. Grazie ai documenti degli archivi tedeschi sappiamo che si trattava di 1.316 tonnellate di testate all'iprite, gran parte delle quali si trovano ancora nei fondali a sud di Pesaro.

Armi chimiche impiegate durante la Seconda guerra mondiale Armi chimiche impiegate
durante la Seconda guerra mondiale Dopo il 1945 gli Alleati si liberarono del loro arsenale di gas e di quello catturato agli sconfitti. I files dell'US Army - documenti in parte ancora segreti - rivelano che molte decine di migliaia di ordigni chimici vennero inabissati in una «discarica chimica» nel Golfo di Napoli, davanti all'isola di Ischia. Lo stesso è accaduto in Puglia, partendo daManfredonia, dove altre decine di migliaia di testate con veleni made in Usa furono annegate. I rapporti la descrivono come una manovra piena di incidenti: molti ordigni andarono letteralmente alla deriva.

Questo colossale cimitero sottomarino libera lentamente i suoi spettri: le bombe si corrodono e rilasciano iprite e arsenico. L'unico studio condotto nel 1999 dagli esperti dell'Icram ha trovato tracce delle due sostanze negli organi dei pesci di quella zona e nei fanghi del fondale. Il responsabile dei ricercatori, Ezio Amato, ha denunciato una situazione agghiacciante: «I pesci del basso Adriatico sono particolarmente soggetti all'insorgenza di tumori, subiscono danni all'apparato riproduttivo, sono esposti a mutazioni che portano a generare esemplari mostruosi».

Ma i mostri tossici non dormono soltanto in fondo al mare. In molti sono stati ignari di abitare in quartieri che sorgono intorno, o addirittura sopra, a vecchi stabilimenti di armi chimiche, in molti sono stati all'oscuro della reale produzione di queste fabbriche. Miscele cancerogene, che hanno minato l'ecosistema, inquinando aria, terra, acqua.


L'Acna di Rho ha convogliato i suoi scarichi nella falda idrica che scorre verso il centro di Milano, quella di Cesano Maderno ha contaminato la Brianza e sempre in Lombardia a Melegnano dai suoli della Saronio continuano a sbucare nuvole nocive. I dossier dell'intelligence britannica parlano di 60-65 mila tonnellate di armi chimiche prodotte a Rho, 50-60 mila tonnellate a Cesano Maderno, altre decine di migliaia a Melegnano. Il tutto secondo le priorità di guerra, scaricando fanghi e scarti nei fiumi e nei campi.

I militari italiani per tutto il dopoguerra hanno protetto due stabilimenti di gas top secret: uno a Cerro al Lambro, davanti al casello milanese dove nasce l'Autostrada del Sole, l'altro aCesano di Roma, nel territorio della capitale. Sono stati smantellati soltanto nel 1979, senza notizie di un risanamento sistematico. Non si sa nemmeno se ci sia stata una bonifica dei laboratori sperimentali di via del Castro Laurenziano, nel cuore di Roma, accanto alle aule della Sapienza e ai condomini, dove si testavano i nuovi gas.

Quando, dopo la caduta del muro di Berlino, i generali hanno deciso di abbattere le loro riserve chimiche, le sorprese non sono mancate. Tutti i governi italiani avevano negato la presenza di gas bellici sul territorio nazionale; Giulio Andreotti nel 1985 lo aveva addirittura ribadito davanti al Parlamento. E invece esistevano almeno tre bunker, ripuliti poi nel massimo segreto. Il più importante era sul lago di Vico. Un'installazione colma di misteri e pericoli: durante i lavori nel 1996 una nube di fosgene è scappata via e ha raggiunto la strada, aggredendo un ciclista.

Quell'uomo è l'ultima vittima europea delle armi chimiche. Solo nel 1997 si è scoperto che l'Esercito aveva messo da parte almeno 150 tonnellate di iprite del modello più micidiale, mescolata con arsenico. In più c'erano oltre mille tonnellate di adamsite, un gas potentissimo ma non letale usato contro le dimostrazioni di piazza. E 40 mila proiettili chimici.

Per neutralizzarli è stato creato un impianto modello a Civitavecchia che imprigiona le scorie velenose in cilindri di cemento. La fabbrica di pace lavora senza sosta dal 1993 e continuerà a farlo almeno fino al 2015. Lì i cilindri di cemento all'arsenico, custodi testamentari del delirio chimico, continuano ad aumentare: sono già molte migliaia, in attesa che venga individuato un deposito definitivo dove seppellirli.

E forse un giorno qualcuno si porrà il problema delle discariche sottomarine. Gli ordigni seminati dagli americani sono spesso a pochi metri di profondità: un incredibile self service per qualunque terrorista, che potrebbe mettere le mani sulle armi più potenti per scatenare l'apocalisse. Abbiamo invaso l'Iraq per cercare le armi di distruzione di massa, invece sarebbe bastato tuffarsi nelle acque di Molfetta o di Ischia per trovarne a migliaia. Arrugginite fuori, micidiali dentro.

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Miracolo Bogotà: per anni in mano ai narcotrafficanti e alle bande giovanili, ora la capitale della Colombia vuole risorgere.
Per anni in mano ai narcotrafficanti e alle bande giovanili. Ora la capitale della Colombia vuole risorgere. E dall'urbanistica ai trasporti cambia volto. Nascono biblioteche e musei della Scienza. E una metro con libri gratis per i passeggeri.

Tre sindaci. Uno diverso dall'altro, per storia personale, per radici culturali, per percorso politico. I tre amministratori hanno provato, giorno dopo giorno, a cambiare il volto di una città che non è mai stata portata ad esempio del buon e bel vivere. Anzi, ha racchiuso dentro di sé tutti gli aspetti negativi della Nazione: criminalità, corruzione, violenza, degrado ambientale, distacco incolmabile tra leadership politica, economica e finanziaria e maggioranza dei cittadini. I tre sono riusciti nella loro impresa.

Stiamo parlando di Bogotà, la capitale della Colombia, dove si sono alternati negli ultimi 12 anni Antonas Mockus con due mandati (1995-1997 e 2001-2003), Enrique Peñalosa (1998-2000) e Luis Eduardo Garzòn che governa la città dal 2004. Oggi Bogotà non è più una metropoli del Sud America nella quale, come accadeva ancora nei primi anni Novanta, la corrente elettrica mancava sei-otto ore al giorno per lunghi mesi; o l'acqua potabile era garantita 24 ore su 24 solo nei quartieri residenziali e nei palazzi più moderni. O dove c'era la probabilità assai alta di essere rapinati e uccisi o diventare vittime innocenti e ignare della guerra decisa dai narcotrafficanti contro polizia, esercito e governo a suon di auto bomba.

Piano piano, giorno dopo giorno, Bogotà ha cambiato aspetto. Che la trasformazione non sia un fenomeno effimero, o soltanto la furbesca ritinteggiatura di qualche facciata, lo dice la presenza della capitale colombiana in un padiglione della Biennale di Venezia, dove le è stato assegnato il Leone d'oro per l'architettura con questa motivazione: "Negli ultimi anni questa città ha affrontato i problemi legati all'integrazione sociale, all'istruzione, all'edilizia abitativa e allo spazio pubblico, specialmente attraverso innovazioni nel settore dei trasporti". Bogotà ha ricevuto anche il plauso dell'Unesco che l'ha proclamata 'Capitale mondiale del libro' per il 2007.

Antanas Mockus è stato il battistrada dell'operazione di cambiamento. Matematico e filosofo, decise di dedicarsi alla politica nel 1993, quando aveva 43 anni. Lasciò il posto di rettore dell'Università di Bogotà e annunciò la candidatura a sindaco. Senza una precisa organizzazione alle spalle, all'inizio non fu preso molto sul serio. Ma il suo anticonformismo fu la carta vincente per l'ingresso nel palazzo dell'Alcalde di Bogotà. A un'assemblea che non aveva alcuna voglia di ascoltare il suo programma politico, rispose saltando su una cattedra e calandosi i pantaloni: gesto che gli procurò silenzio totale e attenzione.

I gesti eclatanti segnarono l'intera prima fase di Mockus, figlio di un immigrato lituano. Dovette affrontare il disinteresse e l'apatia dei suoi concittadini nei confronti delle bande criminali giovanili che consideravano solo un problema di polizia (a quei tempi occupata o nella lotta al narcotraffico o a spalleggiarlo per ottenere una fetta dei profitti). Bene, il sindaco si presentò nelle strade con il costume rosso e azzurro di superman. Spettacolare, certo, ma funzionò. C'erano assurdi sprechi dell'acqua potabile? Il sindaco si fece riprendere sotto la doccia che chiudeva il rubinetto per insaponarsi e lo riapriva solo al momento di sciacquarsi. Obiettivo centrato: in due mesi i risparmi furono del 14 per cento, e nel corso degli anni e delle successive campagne toccarono il 40 per cento.



L'indole teatrale di Mockus prese il sopravvento anche quando decise di mettere mano al traffico di Bogotà per combattere il totale disinteresse dei guidatori verso le regole della circolazione (alla fine dell'anno si riassumeva in un bollettino di guerra per il numero di morti e di feriti). Il sindaco spedì una decina di mimi nei punti caldi del traffico di Bogotà con il compito di prendere da un lato apertamente in giro i kamikaze della guida e dall'altra di rappresentare sul palcoscenico reale della strada cosa volesse dire osservare le regole. Fu un successo clamoroso (alla fine del secondo mandato i morti della capitale si erano ridotti della metà, da mille e 300 l'anno a 600) che costrinse l'Alcalde Mockus a portare fino a 400 i mimi da traffico. E che gli dette la forza di liquidare e poi rifondare la polizia municipale che era diventata esclusivamente un centro di corruzione.

Contemporaneamente si era messo in moto il processo di rinnovamento urbanistico i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti. La Candelaria, il più antico quartiere di Bogota dove sorge il Museo dell'Oro, cominciò a perdere l'aspetto degradato e fatiscente cui era arrivato. Oggi è completamente restaurato e la maggior parte delle sue strade sono state restituite in gran parte al traffico pedonale. Un'altra opera di restauro riguardò il parco pubblico Simon Bolivar, che fece da detonatore a una politica di creazione di nuovi spazi verdi che in questi 15 anni ha portato al Rinascimiento, un'area verde caratterizzata da una statua di Botero ('Uomo a cavallo'), e alla scelta di creare larghe aree di verde ogni volta che veniva presa la decisione di costruire un nuovo quartiere residenziale o di restaurare quelli più vecchi che si trovano a mezza costa lungo la montagna che circonda Bogotà.

Nel corso del primo mandato Mockus abbandonò con un anno di anticipo il suo incarico per tentare il grande salto verso la presidenza (fu sonoramente sconfitto e l'arma della trasgressione gli risultò fatale, come quando lanciò l'acqua di un bicchiere sul viso del suo rivale durante un dibattito televisivo). Quella batosta lo convinse a tornare a insegnare matematica e poi a ritentare - con successo - una nuova stagione da sindaco dal 2001 al 2003.

Al suo posto arrivò Enrique Peñalosa, fama d'attenzione all'ambiente urbano. Il nuovo sindaco suscitò grande sorpresa quando bocciò il piano di una società di consulenza giapponese specializzata nelle questioni del traffico delle grandi metropoli. I giapponesi avevano proposto la costruzione di grandi autostrade urbane per smaltire il traffico. Peñalosa rispose che quella scelta avrebbe solo fatto aumentare il numero delle auto in circolazione e, dunque, il volume di traffico. Scelse, invece, di costruire una sorta di metropolitana di superficie denominata TransMilenio, autobus di colore rosso che passano a frequenza ravvicinata lungo le due grandi direttrici di Bogotà: le Carreras da nord a sud e le Avenidas da est a ovest (per evitare il contatto tra auto e pedoni sono stati costruiti grandi sovrapassi). Altra scelta clamorosa per una metropoli del Sud America, quella a favore della bicicletta: molte vie sono state riservate solo al traffico ciclabile, e nel weekend le strade vietate alle auto raggiungono la lunghezza di 100 chilometri (saranno 200 entro la fine del decennio), un modo per consentire di uscire completamente dalla città e pedalare in campagna.

Con l'amministrazione di Peñalosa non si sono fermati i nuovi progetti urbanistici. Senza esagerazioni il centro finanziario della capitale si è arricchito di nuovi grattacieli. E un occhio di riguardo è stato usato per i bisogni culturali della metropoli. È sorto un nuovo museo della Scienza e in periferia ben tre nuove biblioteche: El Tunal, El Tintal, la Virgilio Barco che fanno perno sulla più antica e centrale, la Luis Angel Arango. La cultura del libro ha fatto sì che i sindaci abbiano tutti perseguito la realizzazione di una biblioteca, gratis e itinerante, affidata ai bus rossi del TransMilenio dove si può prelevare senza costi un libro, leggerlo e depositarlo su un altro mezzo pubblico.

Attualmente, nel palazzo dell'Alcaldia di Bogotà abita Luis Eduardo Garzòn, soprannominato Lucho, proveniente dalle fila del Pdi, un giovane partito che si dichiara genericamente di sinistra. Garzòn ha mantenuto la barra sulla stessa rotta dei suoi predecessori. E come loro sta cercando di migliorare il volto della capitale della Colombia, un paese che solo vent'anni fa era così profondamente controllato dalla cultura e dal potere dei trafficanti di cocaina che i capi narcos avevano proposto al governo in carica di pagare in contanti il debito estero della Colombia in cambio di una amnistia totale.

Garzòn è entrato spesso in conflitto sia con il presidente Alvaro Uribe, che proviene da una formazione di centrodestra, sia con i suoi compagni di partito. Con Uribe quando ha chiesto che non fosse la città da sola a sopportare il peso economico dell'educazione dei paramilitari di destra che si sono arresi. Con la sinistra quando ha chiesto un incremento della tassa che serve allo sviluppo di Bogotà. Per adesso ha vinto su entrambi i fronti.




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Dio è teenager: conquistarli è una sfida, annoiarli è facile. ingannarli impossibile.
Conquistarli è una sfida. Annoiarli è facile. Ingannarli impossibile. I ragazzi hanno le chiavi della Repubblica dei Consumi. E le useranno per migliorare il mondo

Se i 60 anni di oggi corrispondono ai 40 di qualche tempo fa - e ci conto proprio - allora i 12 corrispondono ai 16. I ragazzi non sono mai stati altrettanto collegati, maggiormente messi in comunicazione, più connessi. I confini demografici tra infanzia, adolescenza ed età adulta sfumano, si stanno dissolvendo. Io sono convinto che sia un bene. Ma partiamo da cinque dati fondamentali.

La grande maggioranza dei ragazzi tra i 12 e i 24 anni il più delle volte trova noioso l'intrattenimento che ha scelto. All'età di quattro anni il 45 per cento dei bambini ha usato un mouse, il 27 per cento ha utilizzato un computer a casa. Il 70 per cento dei ragazzi tra i 13 e i 17 anni usa il cellulare per stabilire rapporti sociali o per creare altro genere di contenuti: e gli adolescenti italiani lo fanno ancora più dei loro coetanei negli Stati Uniti e nel resto dell'Europa occidentale.

Nel 2005, i bambini hanno influenzato circa il 47 per cento delle spese delle famiglie americane, per una somma superiore ai 700 miliardi di dollari. E infine, circa il 60 per cento degli appartenenti alla cosiddetta Generazione Y (tra i nove e i 29 anni) si sente personalmente responsabile nel voler cambiare il mondo, mentre circa l'80 per cento crede che le grandi società dovrebbero sentire la responsabilità di unirsi a loro.

Oggi più che mai, quindi, questo mondo è dei giovani. I fattori fondamentali che caratterizzano l'essere ragazzi non sono cambiati: giocare, essere popolari, emergere (o non emergere), essere implacabilmente curiosi. Anche i grandi interrogativi sono rimasti i medesimi. Chi sono? Perché non posso? I ragazzi saranno sempre un passo più avanti degli adulti, e gli adulti saranno sempre ragazzi sotto mentite spoglie. Nelle 'Notti al museo', i pernottamenti per ragazzi organizzati dal museo americano di Storia naturale, sono decine gli adulti che chiedono inutilmente di poter trascorrere anche loro lì la notte, ma senza figli.



Quello che invece è davvero cambiato è tutto il mondo che ruota intorno ai ragazzi. Intrattenimento, tecnologia, marchi formano un tutt'uno, una cultura unica e ininterrotta, fatta di immagini, suoni e movimento. Ogni cosa è mezzo di comunicazione. Ognuno si connette. Ogni luogo è connesso. E se le mamme sono le sentinelle di questa Repubblica dei consumatori, allora i veri padroni delle chiavi sono i ragazzi. La Generazione Y è multitasking, fa molte cose allo stesso tempo, non 'spegne' mai. Non dimentichiamo, del resto, che è la prima generazione cresciuta con Internet.

I giovani, saturati di pubblicità disgustosa, sono in realtà i consumatori più raffinati che esistono. Come ha detto Malcolm Gladwell: "I ragazzi sono esperti del loro mondo e conoscono la differenza che passa tra la versione del marketing e la versione reale". La verità è che i giovani sono molto più svegli degli adulti, individuano più rapidamente la dissimulazione e avvertono gli altri molto più velocemente.

La Generazione MySpace è sfuggente, scettica, interattiva, si lascia influenzare soprattutto dagli amici. Hanno a cuore alcuni marchi, certo, perché i marchi parlano alla loro vera identità, ma è facile per loro cambiarli e sostituirli. Riuscire a essere una proposta sostenibile di marchio per i ragazzi e anche per i loro preoccupati genitori impone oggi di ammantarsi di una magia irresistibile, di diventare quello che io chiamo un Lovemark.

L'era del digitale poi ti sovrascrive: quando tua figlia, a otto anni, declassa il tuo accesso privilegiato al computer da 'amministratore' a 'utente', significa che sono arrivate le Valchirie. E Internet? È un'estensione del cortile della scuola, con tutte le sue meraviglie e i suoi pericoli amplificati.

L'anno scorso, dopo aver giocato per 36 ore filate a un gioco on line un ragazzino cinese di 13 anni si è suicidato gettandosi nel vuoto. I limiti sono importanti, sia per l'accesso degli adulti che per la partecipazione dei giovani. La sfida per noi 'adulti' consiste nel saperli stabilire correttamente.

Ma la Repubblica dei consumatori, la cultura del capitalismo, non subirà limiti di scelta. La partita sul lungo periodo si disputerà con un dialogo aperto, non con la censura, ed educando i giovani consumatori a fare le scelte giuste dal loro punto di vista, non dal vostro. Un mio collega, docente a Cambridge, riassume in questi termini il paradosso della sostenibilità: "Non si può dare maggiore potere e controllare allo stesso tempo". Quale che sia il vostro punto di vista - madre, insegnante, uomo del marketing o mentore - ecco dieci consigli per connettervi al meglio con i ragazzi, visti dal mercato globale.

fuente: l'Espresso

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agosto 27, 2010

Con un pc tra le stelle:  Microsoft prepara un grande progetto per navigare nelle galassie da casa.
Microsoft prepara un grande progetto per navigare nelle galassie da casa. Grazie ai dati di migliaia di osservatori, rielaborati e messi in Internet. A disposizione di tutti

Spalanchi gli occhi, trattieni il fiato, nella penombra ovattata dell'anfiteatro. L'immagine sullo schermo mostra una foto satellitare del centro conferenze Microsoft dove ci troviamo: Ma improvvisamente si anima e si capovolge: saliamo in verticale, via da Seattle, via dall'America, via dalla Terra, verso il cielo stellato. Zoom, verso un puntino di luce lontano, che s'ingrandisce, che si allunga, diventa una galassia sempre più luminosa, sempre più dettagliata. E, zoom, ci troviamo dentro a uno dei bracci del mulinello stellare, in una supernova lontana 25 milioni di anni luce.

L'effetto visivo sfiora la magia, ma non è una simulazione, non è un videogioco. Stiamo navigando dentro un collage delle immagini raccolte dai più potenti strumenti di osservazione astronomica oggi a disposizione degli scienziati (Hubble Space Telescope, Chandra X-Ray Observatory, Sloan Digital Sky Survey etc.). Si clicca un'icona, si cambia la lunghezza d'onda delle rilevazioni: la stessa fetta di cielo ci appare ai raggi X o agli infrarossi. Ammassi di polvere cosmica, nubi d'idrogeno, eruzioni d'energia prima invisibili. E questo è solo un prototipo, un anteprima del World Wide Telescope, un progetto così ambizioso che immagina di integrare assieme, collegare fra loro, e rendere accessibile a professionisti e profani, tutti i dati raccolti sul cosmo che ci circonda. In altre parole: avete presente Google Earth? Questo è il suo equivalente per le stelle.

L'idea che il cielo si possa scrutare 'meglio' dentro al browser di un computer, invece che nel mirino di un telescopio, è la visione che ha sostenuto per anni il lavoro di Jim Gray, il celebre esperto di teoria del database impiegato dal laboratorio di Redmond della Microsoft Research. A fine gennaio, Grey è diventato anche il protagonista di un tragico mistero: è scomparso durante un'uscita in solitario in barca a vela, al largo di San Francisco, per disperdere le ceneri della madre in mare. Ma il suo sogno intanto si sta realizzando.



"Jim amava mostrare due grafici", ci racconta il suo collega Curtis Wong: "Nel primo si vede come la superfice di specchio installato in tutti i telescopi tradizionali del mondo raddoppiava in passato ogni 25 anni. Nel secondo si vede come la capacità dei sensori elettronici installati nei telescopi moderni raddoppia adesso ogni anno". Dal cielo piove insomma un diluvio di dati, un flusso che cresce a ritmo esponenziale. Lo Sloan Digital Sky Survey, uno dei progetti di mappatura della volta celeste oggi più aggiornati, ha raccolto ad esempio nove terabyte di immagini (un terabyte vale mille gigabyte). La prossima generazione di telescopi adesso in costruzione promette di raccogliere invece petabyte di informazioni (un petabyte sono un milione di gigabyte). Come si analizza un simile oceano di numeri? Come si trova l'ago nel pagliaio?

Il desiderio di 'federare' assieme questi immensi archivi digitali, per creare una sorta di memoria collettiva dell'osservazione celeste, che qualunque scienziato potrà scandagliare per verificare nuove ipotesi e possibili correlazioni, è abbastanza ovvio. E il dottor Grey aveva pronosticato anche un ruolo sempre più importante per il software: un nuovo tipo di ricerca che usa programmi ed algoritmi per distillare potenziali scoperte in automatico. Ma l'intuizione che rende il World Wide Telescope un esperimento unico è stata la scelta di farne un sistema aperto, anche ai non addetti ai lavori, puntando così a mobilitare l'entusiasmo delle legioni degli amatori.

"L'astronomia è di gran lunga la scienza più popolare fra la gente comune", spiega il dottor Milan Maksimovic, astrofisico del Cnrs presso l'Osservatorio di Parigi: "Forse perché ci pone domande così profonde - com'è nato l'universo, da dove viene la vita - forse perché guardare le stelle è un'attrazione ancestrale, ci sono centinaia di migliaia di astronomi amatori in tutto il mondo". Questo può sembrare curioso, visto che almeno nella sua componente più teorica lo studio del cosmo ha raggiunto un livello di astrazione matematica assolutamente incomprensibile ai comuni mortali. Ma è invece un fenomeno in crescita silenziosa.

fonte: L'Espresso

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Il massacro dimenticato di Pontelandolfo: quando i bersaglieri fucilarono gli innocenti.
Il 14 agosto 1861 per vendicare i loro quaranta morti i soldati sabaudi uccisero 400 inermi. Un eccidio come quello delle Fosse Ardeatine. Il sindaco oggi si batte perché alla città sia riconosciuto lo status di "martire". E promette: se l'esercito chiede scusa, invitiamo la loro fanfara a suonare come atto di riconciliazione

SIGNOR presidente della Repubblica, signori ministri, autorità incaricate delle celebrazioni del centocinquantenario, questa storia è per voi. Non voltate pagina e ascoltate il racconto di questo soldato, se credete al motto "fratelli d'Italia" e tenete all'onestà della memoria sul 1861, anno uno della Nazione.

"Al mattino del giorno 14 ricevemmo l'ordine di entrare nel paese, fucilare gli abitanti, meno i figli, le donne e gli infermi, e incendiarlo. Subito abbiamo cominciato a fucilare... quanti capitava, indi il soldato saccheggiava, ed infine abbiamo dato l'incendio al paese, di circa 4.500 abitanti. Quale desolazione... non si poteva stare d'intorno per il gran calore; e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti, e chi sotto le rovine delle case. Noi invece durante l'incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava". Olocausto firmato dagli Einsatzkommando? No, soldati italiani, al comando di ufficiali italiani. E il villaggio non sta in Etiopia ma in Italia, nel Beneventano. Il suo nome è Pontelandolfo. Massacro a opera dei bersaglieri, data 14 agosto 1861, meno di un anno dopo l'ingresso trionfale di Garibaldi a Napoli. Pontelandolfo, nome cancellato dai libri perché ricorda che al Sud ci fu guerra, sporca e terribile, e non solo annessione.

Andiamoci dunque, luogotenente Cariolato, per capire cosa accadde; perdiamoci nel labirinto di strade sannitiche già ostiche ai Romani, e saliamo verso quel promontorio di case, in un profumo ubriacante di ginestre e faggete secolari. Penso a un viaggio nella storia e invece mi trovo immerso in un oggi che scotta, davanti a una giunta comunale che aspetta, sindaco in testa. Delegazione agguerrita, di centrosinistra, schierata per avere giustizia. Raccontano, come di cosa appena accaduta. C'è una rivolta, alla falsa notizia che i Borboni sono tornati. Scattano regolamenti di conti con due morti, i briganti scendono dai monti, il prete suona le campane per salutare la restaurazione.

Un distaccamento di bersaglieri va a vedere, ma nella notte vengono aggrediti da una banda in un paese vicino e lasciano sul terreno 41 morti. Ci sono buoni motivi per pensare che il responsabile sia un proprietario terriero, impegnato in un subdolo doppio gioco: eccitare le masse per poi invocare la mannaia e rafforzare il suo status. Ma non importa: si manda una spedizione punitiva con l'incarico di "non mostrare misericordia", e alla fine si contano 400 morti. Morti innocenti perché gli assassini si sono dati alla macchia.

Quattrocento per quaranta. Dieci uccisi per ogni soldato, come alle Fosse Ardeatine. Oggi a Pontelandolfo c'è solo un monumentino con tredici nomi e una lapide in memoria di Concetta Biondi, violentata e uccisa dai soldati. Mancano centinaia di nomi, scritti solo nei registri parrocchiali. Il sindaco: "A marzo siamo stati finalmente riconosciuti come "luogo della memoria". Ma non ci basta: vogliamo essere "città martire" e che questo nome sia scritto sulla segnaletica. Vogliamo che l'esercito riconosca la sua ferocia. Lo dico al ministro: se i bersaglieri chiedono scusa, noi invitiamo ufficialmente le loro fanfare a suonare in paese come atto di riconciliazione. I nostri e i loro morti vanno ricordati insieme. Io ho giurato sulla fascia tricolore. Voglio dar senso alle celebrazioni, e non lasciare spazio ai rancori anti-unitari". Renato Rinaldi è un ex ufficiale di marina che si è tuffato in quelle pagine nere. Anche lui ha giurato sul Tricolore e anche a lui pesa il silenzio del Quirinale di fronte a vent'anni di lettere miranti al "ricupero della dignità del paese". Mi spiega che i bersaglieri erano agli ordini di un generale vicentino - vicentino, sì, come il mio buon Cariolato - di nome Pier Eleonoro Negri. E anche qui c'è silenzio. L'Italia non fa mai i conti col suo passato. Nessuna risposta da Vicenza alla richiesta di dedicare una via a Pontelandolfo o di togliere la lapide celebrativa del generale sterminatore.



Cielo limpido sulle verdissime foreste del Sannio. Perché si parla di Bronte e non di Pontelandolfo? Perché sono rimasti nella memoria gli errori garibaldini e non gli orrori savoiardi? E che cosa si sa della teoria dell'inferiorità razziale dei meridionali - infidi, pigri e riottosi - impostata da un giovane ufficiale medico piemontese di nome Cesare Lombroso, spedito al Sud nel '61 e seguire la cosiddetta guerra al brigantaggio? Che "fratelli d'Italia" potevano esistere se mezzo Paese era "razza maledetta" dal cranio "anomalo", condannata all'arretratezza e alla delinquenza? Leggo: "Dio, che cosa abbiamo fatto!", parole scritte nel '62 da Garibaldi in merito allo stato del Sud. Lettera alla vedova Cairoli, che per fare l'Italia - un'altra Italia - gli ha dato la vita di tre figli e del marito. Non si parla dei vinti. E senza i vinti le celebrazioni sono ipocrisia. Che fine ha fatto per esempio Josè Borjes, il generale di cui mi ha parlato Andrea Camilleri? Parlo dell'uomo che sempre nel '61, quasi da solo, tentò di sollevare le Sicilie contro i Savoia. Perché non si dice nulla della sua epopea e del mistero della sua morte? Perché non si riconosce il valore di questo Rolando che galoppa verso una fatale Roncisvalle dopo essere sbarcato con soli dodici uomini in Calabria, alla disperata, sulla costa crudele dei fallimenti, la stessa di Murat, dei Fratelli Bandiera, di Pisacane, dei curdi disperati, dei monaci in fuga dagli scismi bizantini?

Ed ecco, in una sera straziante color indaco, arrivare come da un fonografo lontano la voce di Sergio Tau, scrittore e regista che ha dedicato anni alla storia del generale catalano. "All'inizio degli anni Sessanta feci un film sul brigantaggio post-unitario. Volevo fare qualcosa di simile a un western, ma la pellicola non fu mai trasmessa. Allora era ancora impossibile parlarne. Ora vedo che la storia di Borjes può tornare fuori... Filmicamente è grandiosa, con la sua traversata invernale dell'Appennino". Ne terrà conto qualcuno? Borjes punta sullo Stato pontificio, ma a Tagliacozzo viene "venduto" da una guida traditrice ai bersaglieri, che lo fucilano insieme ai suoi. "Conservate quel corpo, potrete passarlo ai Borboni", dice un misterioso francese e venti giorni dopo la salma è consegnata alla guardia papalina, scende via Tivoli fino al Tevere e al funerale nella chiesa del Gesù a Roma. Poi c'è una messa per l'anima sua a Barcellona, ma del corpo più nessuna traccia. Resta un suo diario, stranamente in francese, lingua che lui non conosceva. L'ha davvero scritto lui o l'hanno scritto i "servizi" di allora, per occultare la repressione in atto? Il giallo di una vita vissuta anch'essa, bene o male, alla garibaldina.

fonte: La Repubblica
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agosto 21, 2010

Mondadori salvata dal Fisco: 173 milioni, più imposte, interessi, indennità di mora e sanzioni ridotti a 8.6 milioni.
La somma dovuta dall'azienda editoriale: 173 milioni, più imposte, interessi, indennità di mora e sanzioni. Una norma che si somma ai 36 provvedimenti "ad personam" fatti licenziare alle Camere dal premier. Segrate è difesa al meglio: i suoi interessi li cura lo studio tributario di Giulio Tremonti, nel '91 non ancora ministro. Marina Berlusconi mette da parte 8,6 milioni, in attesa delle integrazioni al decreto. Che puntualmente arrivano.

Sotto i nostri occhi, distolti dalla Parentopoli privata di Gianfranco Fini usata come arma di distruzione politica e di distrazione di massa, sta passando uno scandalo pubblico che non stiamo vedendo. Questo scandalo si chiama Mondadori. Il colosso editoriale di Segrate - di cui il premier Berlusconi è "mero proprietario" e la figlia Marina è presidente - doveva al Fisco la bellezza di 400 miliardi di vecchie lire, per una controversia iniziata nel '91. Grazie al decreto numero 40, approvato dal governo il 25 marzo e convertito in legge il 22 maggio, potrà chiudere la maxi-vertenza pagando un mini-tributo: non i 350 milioni di euro previsti (tra mancati versamenti d'imposta, sanzioni e interessi) ma solo 8,6. E amici come prima.

Un "condono riservato". Meglio ancora, una legge "ad aziendam". Che si somma alle 36 leggi "ad personam" volute e fatte licenziare dalle Camere dal Cavaliere, in questi tumultuosi quindici anni di avventurismo politico. Repubblica ha già dato la notizia, in splendida solitudine, l'11 agosto scorso. Ma ora che il centrodestra discute di una "questione morale" al suo interno, ora che la propaganda di regime costruisce teoremi assolutori sul "così fan tutti" e la macchina del fango istruisce dossier avvelenati sulle compravendite immobiliari, è utile tornarci su. E raccontare fin dall'inizio la storia, che descrive meglio di ogni altra l'enormità del conflitto di interessi del premier, il micidiale intreccio tra funzioni pubbliche e affari privati, l'uso personale del potere esecutivo e l'abuso politico sul potere legislativo.

Il prologo: paura a Segrate.

La vicenda inizia nel 1991, quando il marchio Mondadori, da poco entrato nell'orbita berlusconiana, decide di varare una vasta riorganizzazione nelle province dell'impero. Scatta una fusione infragruppo tra la stessa Arnoldo Mondadori Editore e la Arnoldo Mondadori Editore Finanziaria (Amef). Operazioni molto in voga, soprattutto all'epoca, per nascondere plusvalenze e pagare meno tasse. Il Fisco se ne accorge, scattano gli accertamenti, e le Finanze chiedono inizialmente 200 miliardi di imposte da versare. L'azienda ricorre e si apre il solito, lunghissimo contenzioso. Da allora, la Mondadori vince i due round iniziali, davanti alle Commissioni tributarie di primo e di secondo grado.

È assistita al meglio: i suoi interessi fiscali li cura, in aula, lo studio tributario di Giulio Tremonti, nel 1991 non ancora ministro delle Finanze (lo diventerà nel '94, con il primo governo Berlusconi). Nell'autunno del 2008 l'Agenzia delle Entrate presenta il suo ricorso in terzo grado, alla Cassazione. Nel frattempo la somma dovuta dall'azienda editoriale del presidente del Consiglio è lievitata: 173 milioni di euro di imposte dovute, alle quali si devono aggiungere gli interessi, le indennità di mora e le eventuali sanzioni. Il totale fa 350 milioni di euro, appunto.

Se la Suprema Corte accogliesse il ricorso, per Segrate sarebbe un salasso pesantissimo. Soprattutto in una fase di crisi drammatica per il mercato editoriale, affogato quanto e più di altri settori dalla "tempesta perfetta" dei mutui subprime che dal 2007 in poi sommerge l'economia del pianeta. Così, nel silenzio che aleggia sull'intera vicenda e nel circuito perverso del berlusconismo che lega la famiglia naturale alla famiglia politica, scatta un piano con le relative contromisure. Che non sono aziendali, secondo il principio del liberalismo classico: mi difendo "nel" mercato, e non "dal" mercato.

Ma normative, secondo il principio del liberismo berlusconiano: se dal mercato non mi posso difendere, cambio le leggi. Un "metodo" collaudato, ormai, che anche sul fronte dell'economia (come avviene da anni su quello della giustizia) esige il "salto di qualità": chiamando in causa la politica, mobilitando il partito del premier, militarizzando il Parlamento. Un "metodo" che, nel caso specifico, si tradurrà in tre tentativi successivi di piegare l'ordinamento generale in funzione di un vantaggio particolare. I primi due falliranno. Il terzo centrerà l'obiettivo.

Il primo tentativo: il "pacchetto giustizia".

Siamo all'inverno 2008. Nessuno sa nulla, del braccio di ferro che vede impegnate la Mondadori e l'Amministrazione Finanziaria. Nel frattempo, il 13 aprile dello stesso anno il Cavaliere ha stravinto le elezioni, è di nuovo capo del governo, e Tremonti, da "difensore" del colosso di Segrate in veste di tributarista, è diventato "accusatore" del gruppo, in veste di ministro dell'Economia. Può scattare il primo tentativo. E nessuno si insospettisce, quando nel mese di dicembre un altro ministro del Berlusconi Terzo, il guardasigilli Angelino Alfano, presenta il suo corposo "pacchetto giustizia" nel quale, insieme al processo breve e alla nuova disciplina delle intercettazioni telefoniche, compare anche la cosiddetta "definizione agevolata delle liti tributarie".

Una norma stringatissima: prevede che nelle controversie fiscali nelle quali abbia avuto una sentenza favorevole, in primo e in secondo grado, il contribuente può estinguere la pendenza, senza aspettare l'eventuale pronuncia successiva in terzo grado (cioè la Cassazione) versando all'erario il 5% del dovuto. È un piccolo "colpo di spugna", senz'altro. Ma è l'ennesimo, e sembra rientrare nella logica delle sanatorie generalizzate, delle quali i governi di centrodestra sono da sempre paladini. In realtà, è esattamente il "condono riservato" che serve alla Mondadori.

L'operazione non riesce. Il treno del "pacchetto giustizia", che veicola la pillola avvelenata di quello che poi sarà ribattezzato il "Lodo Cassazione", non parte. La dura reazione del Quirinale, dei magistrati e dell'opposizione, sia sul processo breve che sulle intercettazioni, costringe Alfano allo stop. "Il pacchetto giustizia è rinviato al prossimo anno", dichiara il Guardasigilli alla vigilia di Natale. Così si blocca anche la "leggina" salva-Mondadori. Ma dietro le quinte, nei primi mesi del 2009, non si blocca il lavoro dell'inner circle del presidente del Consiglio. Il tempo stringe: la Cassazione ha già fissato l'udienza per il 28 ottobre 2009, di fronte alla sezione tributaria, per discutere della controversia fiscale tra l'Agenzia delle Entrate e l'azienda di Segrate. Così scatta il secondo tentativo. In autunno si discute alla Camera la Legge Finanziaria per il 2010. È il secondo "treno" in partenza, e per chi lavora a tutelare gli affari del premier è da prendere al volo.

Il secondo tentativo: la Finanziaria.

Giusto alla vigilia dell'udienza davanti alla sezione tributaria della Suprema Corte, presieduta da un magistrato notoriamente inflessibile come Enrico Altieri, accadono due fatti. Il primo fatto accade al "Palazzaccio" di Piazza Cavour: il 27 ottobre il presidente della Cassazione Vincenzo Carbone (che poi risulterà pesantemente coinvolto nello scandalo della cosiddetta P3) decide a sorpresa di togliere la causa Agenzia delle Entrate/Mondadori alla sezione tributaria, e di affidarla alle Sezioni Unite come richiesto dagli avvocati di Segrate, con l'ovvio slittamento dei tempi in cui verrà discussa. Il secondo fatto accade a Montecitorio: il 29 ottobre, in piena notte, il presidente della Commissione Bilancio Antonio Azzolini, ovviamente del Pdl, trasmette alla Camera il testo di due emendamenti alla Finanziaria. Il primo innalza da 75 a 78 anni l'età di pensionamento per i magistrati della Cassazione (Carbone, il presidente che due giorni prima ha deciso di attribuire la causa Mondadori alle Sezioni Unite, sta per compiere proprio 75 anni, e quindi dovrebbe lasciare il servizio di lì a poco). Il secondo riproduce testualmente la "definizione agevolata delle liti tributarie" già prevista un anno prima dal "pacchetto giustizia" di Alfano. È di nuovo la legge "ad aziendam", che stavolta, con la corsia preferenziale della manovra economica, non può non arrivare al traguardo.

Ma anche questo secondo tentativo fallisce. Stavolta, a bloccarlo, è Gianfranco Fini. La mattina del 30 ottobre, cioè poche ore dopo il blitz notturno di Azzolini, il relatore alla Finanziaria Maurizio Sala (ex An) avverte il presidente della Camera: "Leggiti questo emendamento che consente a chi è in causa con il Fisco e ha avuto ragione in primo e in secondo grado di evitare la Cassazione pagando un obolo del 5%: c'è del marcio in Danimarca...". Fini legge, e capisce tutto. È l'emendamento salva-Mondadori, con la manovra non c'entra nulla, e non può passare. La norma salta ancora una volta. E non a caso, proprio in quella fase, cominciano a crescere le tensioni politiche tra Berlusconi e Fini, che due anni dopo porteranno alla rottura. Ma crescono anche le preoccupazioni di Marina sull'andamento dei conti di Segrate. Per questo il premier e i suoi uomini non demordono, e di lì a poco tornano all'attacco. Scatta il terzo tentativo. Siamo ai primi mesi del 2010, e sui binari di Palazzo Chigi c'è un terzo "treno" pronto a partire. Il 25 marzo il governo vara il decreto legge numero 40. È il cosiddetto "decreto incentivi", un provvedimento monstre, dove l'esecutivo infila di tutto. Durante l'iter di conversione, il Parlamento completa l'opera. Il 28 aprile, ancora una volta durante una seduta notturna, un altro parlamentare del Pdl, Alessandro Pagano, ripete il blitz, e ripresenta un emendamento con la norma salva-Mondadori.

Il terzo tentativo: il "decreto incentivi".

Stavolta, finalmente, l'operazione riesce. Il 22 maggio le Camere convertono definitivamente il decreto. All'articolo 3, relativo alla "rapida definizione delle controversie tributarie pendenti da oltre 10 anni e per le quali l'Amministrazione Finanziaria è risultata soccombente nei primi due gradi di giudizio", il comma 2 bis traduce in legge la norma "ad aziendam": "Il contribuente può estinguere la controversia pagando un importo pari al 5% del suo valore (riferito alle sole imposte oggetto di contestazione, in primo grado, senza tener conto degli interessi, delle indennità di mora e delle eventuali sanzioni)". E pazienza se il presidente della Repubblica Napolitano, poco dopo, sul "decreto incentivi" invia alle Camere un messaggio per esprimere "dubbi in ordine alla sussistenza dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza, per alcune nuove disposizioni introdotte, con emendamento, nel corso del dibattito parlamentare". E pazienza se la critica del Quirinale riguarda proprio quell'articolo 3, comma 2 bis. Ormai il gioco è fatto. Il colosso editoriale di proprietà del presidente del Consiglio è sostanzialmente salvo. Per consentire alla Mondadori di chiudere definitivamente i conti con il Fisco manca ancora un banale dettaglio, che rende necessario un ultimo passaggio parlamentare. Il decreto 40 non ha precisato che, per considerare concluso a tutti gli effetti il contenzioso, occorre la certificazione da parte dell'Amministrazione Finanziaria.

Per questo, nel bilancio semestrale 2010 del gruppo di Segrate, presentato il 30 giugno scorso, Marina Berlusconi fa accantonare "8.653 migliaia di euro relativi al versamento dell'importo previsto dal decreto legge 25 marzo 2010, numero 40" sulla "chiusura delle liti pendenti", e fa scrivere, a pagina 61, al capitolo "Altre attività correnti": "Pur nella convinzione della correttezza del proprio operato, e con l'obiettivo di non esporre la società a una situazione di incertezza ulteriore, sono state attuate le attività preparatorie rispetto al procedimento sopra richiamato. In particolare si è proceduto all'effettuazione del versamento sopra richiamato. Nelle more della definizione del quadro normativo, a fronte dell'introduzione di specifiche attestazioni da parte dell'Amministrazione Finanziaria previste nelle ultime modifiche al decreto, e tenuto anche conto del fatto che gli atti necessari per il perfezionamento del procedimento e l'acquisizione dei relativi effetti non sono stati ancora completati, la società ha ritenuto di iscrivere l'importo anticipato nella posta in esame...". Ricapitolando: la Mondadori mette da parte poco più di 8,6 milioni di euro, cioè il 5% dei 173 che avrebbe dovuto al Fisco (al netto di sanzioni e interessi), in attesa di considerare perfezionato il versamento al Fisco in base alle ultime integrazioni al decreto che saranno effettuate in Parlamento. E le integrazioni arrivano puntuali, alla Camera, il 7 luglio: nella manovra 2011 il relatore Antonio Azzolini (ancora lui) inserisce l'emendamento finale: "L'avvenuto pagamento estingue il giudizio a seguito dell'attestazione degli uffici dell'Amministrazione Finanziaria comprovanti la regolarità dell'istanza e il pagamento integrale di quanto dovuto". Ci siamo: ora il "delitto" è davvero perfetto. La Mondadori può pagare pochi spiccioli, e chiudere in gloria e per sempre la guerra con l'Erario, che a sua volta gliene da atto rilasciandogli regolare "quietanza".

L'epilogo: una nazione "ad personam"?

Sembra un romanzaccio di fanta-finanza o di fanta-politica. È invece la pura e semplice cronaca di un pasticciaccio di regime. Nel quale tutto è vero, tutto torna e tutto si tiene. Stavolta Berlusconi non può dire "non mi occupo degli affari delle mie aziende": non è forse vero che il 3 dicembre 2009 (come riportato testualmente dalle intercettazioni dell'inchiesta di Trani) nel pieno del secondo tentativo di far passare la legge "ad aziendam" dice al telefono al commissario dell'Agcom Giancarlo Innocenzi "è una cosa pazzesca, ho il fisco che mi chiede 900 milioni... De Benedetti che me li chiede ma ha già avuto una sentenza a favore, 750 milioni, pensa te, e mia moglie che mi chiede 90 miliardi delle vecchie lire all'anno... sono messo bene, no?". Stavolta Berlusconi non può dire che Carboni, Martino e Lombardi sono solo "quattro sfigati in pensione": non è forse vero che nelle 15 mila pagine dell'inchiesta delle procure sulla cosiddetta P3 la parola "Mondadori" ricorre 430 volte (insieme alle 27 in cui si ripete la parola "Cesare") e che nella frenetica attività della rete criminale creata per condizionare i magistrati nell'interesse del premier sono finiti sia il presidente della Cassazione Carbone (cui come abbiamo visto spettava il compito di dirottare alle Sezioni Unite la vertenza Mondadori-Agenzia delle Entrate) sia il presidente dell'Avvocatura dello Stato Oscar Fiumara (cui competeva il necessario via libera a quel "dirottamento"?).

È tutto agli atti. Una sola domanda: di fronte a un simile sfregio delle norme del diritto, un simile spregio dei principi del mercato e un simile spreco di denaro pubblico, ci si chiede come possano tacere le istituzioni, le forze politiche, le Confindustrie, gli organi di informazione. Possibile che "ad personam", o "ad aziendam", sia ormai diventata un'intera nazione?


I numeri del 2008
.
  • Fatturato consolidato del Gruppo Mondadori 1.819 miliardi di Euro
  • 53.400.000 copie stampate
  • 3.925 dipendenti
  • 2.925 nuovi volumi pubblicati
  • 424 negozi/librerie della divisione retail
  • 50 società controllate
  • 40 magazine pubblicati in Italia
  • 32 magazine pubblicati in Francia



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Bandiera Nera, le navi dei veleni.
In.fondo.al.mar è un'inchiesta giornalistica che si avvale degli strumenti del Web per costruire una memoria condivisa sullo scandalo delle "navi dei veleni" e dare vita ad un'indagine partecipata sugli affondamenti di rifiuti tossici e radioattivi nel Mar Mediterraneo.

Il progetto pubblica in esclusiva i risultati di un'indagine condotta presso l'archivio dei Lloyd's di Londra (Lloyd's Register of Shipping) e li incrocia con informazioni ricavate da ritagli di giornale, dossier di organizzazioni ecologiste e siti specializzati, per costruire un dataset aperto, liberamente scaricabile e riutilizzabile dagli utenti per altri progetti.


Mappe, cronologie ed altre forme di info-visualizzazione forniscono strumenti interattivi per interpretare questa mole di dati ed individuare analogie nei luoghi e nelle modalità d'affondamento, nei carichi dichiarati e nei porti di partenza ed arrivo, e forniscono la base per effettuare ulteriori ricerche sulla vicenda.


Portare veleni a galla

Le hanno chiamate "navi dei veleni", "navi tossiche", "navi a perdere". Si tratta di decine di navi mercantili, affondate o naufragate misteriosamente durante gli ultimi trent'anni nel mare Mediterraneo. Dalla Aso andata a picco nel 1979 vicino a Locri in Calabria, alla Rigel affondata dolosamente al largo di Reggio Calabria nel 1987, alla Marco Polo inabissata nel Canale di Sicilia nel 1993, oltre a decine di incidenti meno noti avvenuti in anni più recenti.


Il sospetto che aleggia su questi incidenti è inquietante: le navi sarebbero state usate per sbarazzarsi di tonnellate di rifiuti tossici, chimici e radioattivi. Veleni affidati ad organizzazioni mafiose ed impresari senza scrupoli per evitare l'alto costo di smaltimento e fare lauti profitti. In questo traffico sarebbero coinvolte non solo imprese italiane ed europee ma pure governi e servizi segreti.

Sono quasi venti anni che si cerca di passare da queste accuse all'accertamento della verità e alla individuazione dei responsabili. Anche se quasi sempre manca il "corpo del reato" nascosto sotto centinaia di metri d'acqua, la quantità di indizi è in molti casi schiacciante.


Tracce di radioattività ben al di sopra alla media sono state rilevate su container e materiali riconducibili ad alcuni degli incidenti, e la presenza di isotopi di cesio e torio è stata riscontrata in alghe e pesci nelle vicinanze. Il numero di tumori in alcune zone costiere della Calabria - regione attorno a cui sono avvenuti molti incidenti sospetti - sono 3 o 4 volte superiori alla media nazionale.




Nonostante i rischi enormi per la salute pubblica che potrebbero essere causati da questa catastrofe ecologica le navi continuano a rimanere laggiù - in fondo al mar - senza che si sia mai verificato cosa contengano veramente.


Di fronte all'inerzia delle istituzioni, in.fondo.al.mar si propone come uno strumento di indagine partecipata, che invita gli utenti a contribuire con nuove segnalazioni, integrazioni e correzioni, che aiutino a ricostruire cosa si nasconda dietro diversi incidenti e chi siano i responsabili. Il progetto è aperto a collaborazioni con esperti nel campo dei rifiuti tossici e radioattivi, della sicurezza marittima e della tutela ambientale.


in.fondo.al.mar è un progetto in evoluzione, aperto al contributo degli utenti:


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agosto 20, 2010

Leggende metropolitane: il cane e l'esplosivo.
Nel racconto di Jack London Moon Face (Faccia di Luna, 1902) il narratore nutre nei confronti di un tale John Claverhouse un odio senza motivo, ma tanto profondo da volerlo uccidere.


Sapendo che l’uomo pratica la pesca con gli esplosivi, gli regala un cane addestrato per il riporto. Quando Claverhouse arriva al laghetto e lancia il candelotto di dinamite, il cane si lancia in acqua, afferra l’esplosivo e torna indietro. L’uomo cerca di scappare, ma il cane lo insegue e lo raggiunge. L’esplosione li uccide entrambi.


Già qualche anno prima, lo scrittore australiano Henry Lawson aveva pubblicato il racconto The loaded dog (1899) nel quale un cane raccoglie una cartuccia di esplosivo che un uomo intendeva usare per pescare (la miccia si accende quando l’animale passa vicino a un fuoco) e rincorre l’uomo e due suoi amici per portargliela. Dopo una serie di peripezie, un cagnaccio aggressivo attacca il cane con la cartuccia costringendolo a lasciarla e sarà questo cane prepotente a esplodere.

Una somiglianza ancora maggiore nella scena del cane con l’esplosivo c’era tra Moon Face e il racconto di Frank Norris The passing of Cock-eye Blacklock, comparso poco prima sul “Century Magazine” del luglio del 1902. Un cane abituato a riportare quel che viene lanciato capita nel luogo dove il personaggio del titolo sta, come è sua abitudine, pescando gettando con la dinamite. Il cane si butta in acqua, agguanta l’esplosivo e lo riporta a Blacklock che cerca di fuggire, ma invano: l’esplosione uccide cane e uomo.




Quando il racconto di London uscì sul “San Francisco Argonaut” del 21 luglio 1902, lo scrittore fu accusato di plagio nei confronti di Norris. Il giornale replicò che il manoscritto di London era arrivato alla redazione prima che uscisse il racconto di Norris e che, comunque, la vicenda del cane era stata ripresa da una notizia pubblicata sul “California News” nel novembre precedente (Labor – Leitz, 1998).


Questa notizia, peraltro, non era la prima occasione, né sarebbe stata l’ultima, in cui la storia di un cane che riportava l’esplosivo veniva presentata come un fatto realmente accaduto.


Su “The Graphic” dell’1 agosto 1885 si raccontava che la settimana precedente nel Carmarthenshire, in Galles, alcune persone stavano facendo esperimenti con la dinamite, buttando l’esplosivo in uno specchio d’acqua per valutarne la potenza in base al volume di liquido che l’esplosione gettava in aria. Da quelle parti passava, però, un cacciatore il cui cane si precipitò in acqua a prendere l’esplosivo e lo riportò verso il padrone che, dopo aver invano gridato al cane di deporre il pericoloso oggetto, lo tenne lontano a sassate fino all’esplosione che ridusse “in atomi lo sfortunato animale”.


Nel terzo volume di Lands and peoples of the world di J. A. Hammerton (1985), come esempio della pericolosità della pesca con gli esplosivi viene citata la disavventura di un gruppo di giovani australiani che, lanciata una bottiglia in cui era stata posta della dinamite, se l’erano vista riportare da un cane e avevano rischiato la vita.


Nel 1997 la storia del cane esplosivo si diffuse in internet in una nuova versione. Due amici vanno a caccia di anatre ad un lago ghiacciato con un cane labrador. Per attirare le anatre, i due pensano di liberare una certa area dal ghiaccio. Lo strato è assai spesso, tanto che vi hanno potuto parcheggiare sopra la nuovissima jeep con cui sono arrivati, ma i due hanno con loro un candelotto di dinamite. Accendono la miccia e lo lanciano. Il cane scatta, raccoglie l’esplosivo e torna di corsa dal padrone. I due, spaventati, urlano al labrador di fermarsi, ma il cane continua ad avvicinarsi. Uno dei due, allora, prende il fucile e spara al cane. I pallini per anatra non lo uccidono, ma lo spaventano e il labrador va a rifugiarsi sotto la jeep. La dinamite esplode e il veicolo sprofonda nel lago.


Secondo la versione raccolta da Jan Harold Brunvand il fatto si sarebbe verificato in Georgia. Barbara Mikkelson riferisce una versione quasi identica, ma ambientata nel Michigan. L’uno e l’altra, comunque, sono d’accordo nell’attribuire senza esitazioni alla storia lo status di leggenda metropolitana. Mikkelson nota che se i laghi sono coperti da uno strato di ghiaccio così spesso le anatre devono essersene andate già da un pezzo e che un cane da riporto dovrà pur conoscere e obbedire ai comandi di fermarsi e di depositare a terra ciò che ha afferrato.


Ovviamente il lettore può applicare quest’ultima osservazione anche alle notizie citate sopra e decidere se ritenerle resoconti di fatti realmente accaduti o, piuttosto, versioni precedenti di una leggenda metropolitana.


fonti:
A dog’s instinct to fetch and carry, “The Graphic”, 1 agosto 1885, p.119.
Henry Lawson, The loaded dog, 1899, http://www.dropbears.com/l/loaded_dog/index.html
Frank Norris, The passing of Cock-eye Blacklock, 1902, http://www.readprint.com/work-5083/The-Passing-of-Cock-Eye-Blacklock-Frank-Norris
Jack London, Moon-Face, 1902; tr. it. Faccia di luna, in Jack London, La peste scarlatta e altri racconti, Milano : Sonzogno, 1956, pp.133-143.
J. A. Hammerton, Lands and peoples of the world, Dehli : Mittal, 1985, vol.3, p.907.
Earle Labor – Robert C. Leitz, introduzione a Jack London, The call of the Wild, White fang and other stories, Oxford : Oxford University Press, 1998, pp.xviii-xix.
Jan Harold Brunvand, Sarà vero? : leggende metropolitane da tutto il mondo, Milano : Pan, 2001, pp.40-41.
Barbara Mikkelson, Jeep at half the price, snopes.com, gennaio 2006, http://www.snopes.com/critters/cruelty/dynamite.asp

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Intel, dai chip all'antivirus,  rileva Mc Afee per 7,7 miliardi. Pagato un premio del 60%sull 'ultimo prezzo a Wall Street
Ciao ciao vecchio chip. Il nucleo del computer si trasforma l'era del digitale entra irreversibilmente nell'ultima di­mensione: quella della sicurez­za.

La mega acquisizione con cui Intel, il leader mondiale nella costruzione dei minuscoli cervelli dei pc, si pappa per 7,68 miliardi di dollari quel gioiellino di McAfee, valutando 48 dollari ad azio­ne (il 60% in più) l'azienda famosa in tutto rimondo per i suoi programmi antivirus, non è soltanto un'operazione che scuote Wall Street in un giorno già nero per i dati negativi Usa.

Sì, sorpreso dall'annuncio de­stabilizzante il mercato ha puni­to Intel spingendo le sue azioni giù del 3,5%. Ma tutti gli analisti concordano sull'importanza strategica e a lungo termine dell'acquisizione che non ha caso ha fatto salire del 7,3% il valore dell'altra fabbrica di antivirus, Symantec, leader del mercato più in espansione dell'hi tech con 1,8 miliardi di dollari (contro i 700 di McAfee). Più della poten­za, più della velocità, la sicurezza è diventata la qualità più richie­sta.

E conservando all'interno del suo impero il marchio McA­fee oggi Intel si propone di rivo­luzionare il concetto stesso di chip: costruendo processori più sicuri e difficilmente espugnab i li già "in natura". «Crediamo eh la sicurezza sia più efficat quando trasferita già diretl; mente nell'hardware» ha detto Geo di Intel Paul Otellini. l'harware non sono ovviameli i più solo i vecchi pc: sono i ne books, itelefonini, gli smartphc ne, i tablet come gli iPad e i let I ( ri digitali come Kindle e perii i la tv che Google con il lancio ii i minente di Google tv (a cui pn prio Intel collabora con Sony) s per trasformare nell'ennesin appendice di Internet.

LamossadiIntel, che non a e so s'è lanciata anche nel bus ness del cloud computing, nuova frontiera dell'immagazzinamento virtuale dei dati che manderà in pensione i dischi fissi, del resto non è l'unica: con l'acquisto di Palm anche il più grande costruttore al mondo di computer, Hewlett-Packard, punta per esempio, sui telefonini.



Per la verità il famoso antivirus questa primavera è stato prota­gonista di un discusso incidente. Un programma di aggiornamento al nuovissimo Windows 7 aveva causato per errore il crash nei computer di mezzo mondo. Ma l'incidente subito superato aveva soltanto messo in luce an­cora di più l'importanza del bu» siness della sicurezza.

Quell'in­tuizione che aveva portato John McAfee, un ex ingegnere inglese della Nasa, a dedicarsi nel garage di casa di Santa Giara, California, a quegli antivirus che avrebbero fatto la sua fortuna. Con 100 mi­lioni di dollari di ricchezze per­sonali, il funarhbolico McAfee, autore di manuali di yoga e colle­zionista di innumerevoli mogli, era diventato il simbolo di quella Superclass immortalata da Da­vid Rhotkopf prima della reces­sione di cui è stato illustre vitti­ma: lontano dalla azienda da lui fondata il suo patrimonio è cala­to fino a "soli" 10 milioni.

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agosto 16, 2010

Kite Wind Generator impianto eolico d'alta quota.
Nell'immagine a fianco si vede la grandezza del carosello rispetto agli alberi sottostanti.

Dalle estremità delle braccia partono delle funi molto resistenti (ad alto modulo) che collegano il carosello con dei kite, ovvero degli aquiloni manovrabili che permettono di andare sia nella direzione del vento che contro vento come fanno le barche a vela.

Il kite wind generator o kitegen è un impianto eolico d'alta quota, oltre i 500 metri di altezza. Si tratta di un aerogeneratore ad asse verticale che usa dei kite ovvero dei profili alari rigidi cioè degli aquiloni per fare muovere una giostra molto grande, si pensa di realizzarla col raggio di 500 metri.


Ogni kite di potenza cioè ogni profilo alare rigido è manovrato da una coppia di funi tramite un programma che risiede su un computer. Nella foto a fianco si vedono tre kite con due funi che ne controllano il movimento.

Nella foto marina si vede un kitesurfer che sta andando di bolina o al traverso cioè sta andando "controvento". Il kitegen sfrutta le stesse capacità delle barche o dei kitesurfisti di andare in tutte le direzioni tramite il vento.

Il software comanda i profili alari a compiere un movimento circolare che in tal modo fanno girare il carosello tramite la forza del vento. Il carosello, tramite un generatore di elettricità, produce molti megawatt di potenza paragonabile a quella prodotta da una media centrale nucleare o anche superiore.

kitesurf © www.kite.com.br A 500 metri di altitudine viaggiano venti molto costanti e molto più forti che a livello del suolo che permettono di generare potenze elettriche impensabili per i normali aerogeneratori eolici.

Il KiteGen può essere installato ovunque anche se la meteorologia e la scelta del sito sono senza dubbio parametri da tenere in massima considerazione e un sito ventoso è naturalmente più congeniale. In particolare, il cielo italiano è attraversato da uno stream geostrofico (nastro di vento) di alta quota che fa dell’Italia una regione particolarmente adatta all’istallazione del KiteGen.

Uno dei vantaggi di questo generatore risiede nell'andare a sfruttare il vento a quote alle quali soffia teso e costante. Per fare un esempio, ad un vento che soffi a terra alla velocità media europea, pari a 3 m/s, corrisponde una velocità del vento di 9 m/s a mille metri di altezza, teso, costante e immune da turbolenze significative.

Le potenze in gioco sono della seguente rilevanza in base al diametro del carosello:

Diametro 100 m equivale ad un generatore da 0.5 MW
Diametro 200 m equivale ad un generatore da 5 MW
Diametro 300 m equivale ad un generatore da 18 MW
Diametro 1'000 m equivale ad un generatore da 500 MW
Diametro 1'260 m equivale ad un generatore da 1000 MW
Si noti la dipendenza cubica tra il diametro del carosello e la potenza generata. Tra 100 metri e 1000 metri di diametro della giostra vi è un rapporto pari a dieci mentre tra 0.5 megawat e 500 megawatt c'è un rapporto pari a mille: appunto, è una relazione cubica.

Le ore di vento all'anno sono molto alte e si stimano in 7000-8000 contro le 1700 degli impianti eolici italiani. Si tratta quindi di una fonte energetica non intermittente bensì costante. Così si può paragonare direttamente il kitegen con una media centrale nucleare arrivando a dire che è sufficiente un carosello da 1260 metri di diametro per avere la stessa energia.

Massimo Ippolito della Sequoia automation di Chieri (TO) porta avanti il progetto ed è in piena fase di sperimentazione pratica del kitegen. Ha ricevuto 15 milioni di euro dallo Stato, con varie tipologie di finanziamento, per sperimentare il progetto e attualmente ci sono 10 persone che lavorano a tempo pieno per risolvere i problemi tecnologici che si pongono.

Con fondi propri e sponsorizzazioni ha iniziato la sperimentazione di un kite controllato da un software e montato su un camion. Il suo nome è Mobilegen e avrà una potenza di 20-50 Kw. Con tale dispositivo è sufficiente correre con il camion perché sul kite impatti il vento alla velocità desiderata.

Mibile genNel mese di settembre 2006 è stata presentato il prototipo mibilegen che ha una potenza di punta di 40 Kw, si tratta di un generatore eolico mobile adatto a località ventose e che oltre a generare energia la accumula mediante batterie.

A fianco si vede il camion in cui è installata l'attrezzatura per convertire l'energia del vento in elettricità e che comanda tramite due funi il kite di potenza che si vede nello sfondo della foto. Le funi servono sia per trasmettere il moto del profilo alare che per controllarne il movimento.

Un pdf spiega il funzionamento del mobilegen che si basa semplicemente nello sfruttare la forza trainante del vento e nella capacità dei kite di portarsi in posizione di stallo. Il documento chiarisce con disegni ogni dubbio e nel dettaglio il funzionamento di questa macchina eolica mobile.

L'ing Massimo Ippolito afferma: « Questo primo prototipo ha lo scopo di affrontare e superare le problematiche di controllo automatico del volo di un profilo alare di potenza e di determinare il profilo aerodinamico più vantaggioso per l’impiego previsto. In questo ambito sono stati selezionati e prescelti i sensori che equipaggeranno il profilo alare e sono state sperimentate e selezionate le tecniche di trasmissione real-time bordo/terra. Sono stati inoltre progettati, realizzati e simulati gli algoritmi di controllo, destinati, sulla base dei dati ricevuti dai sensori di bordo, a comandare gli argani che controllano la tensione dei cavi di comando e la loro lunghezza.».

Un filmato di ampie dimensioni (9.6 MByte) di tipo QuickTime, mostra la sperimentazione del MobileGen.

Con i primi 4 milioni di euro partirà la sperimentazione di un kitegen da 1 megawatt, di seguito partirà la progettazione di un kitegen di potenza usando i restanti 11 milioni di euro del contributo pubblico. Il kitegen di potenza sarà probabilmente da 20 Mw e si pensa di cotruirlo sulle ceneri dei reattori di Trino Vercellese, area ideale perché già protetta da una "no fly zone".

Se tutte le fasi avranno successo rimane il problema di trovare i fondi e le autorizzazioni per costruire e sperimentare un kitegen di potenza.

Fonti: le FAQ che rispondono alle domande più frequenti relative al KiteGen, Blog del kitegen, introduzione al progetto, sito ufficiale.

Aggiornamento 4 set 2006: In una intervista a radio radicale Massimo Ippolito parla delle prime sperimentazioni e dichiara che il kitegen ha volato. Adesso stanno effettuando le prime misurazioni e rilievi tecnici.

Aggiornamento 16 set 2006: Mi è venuta una idea che credo sia migliore di quella della giostra. Mi riferisco al basamento che permette ai kite di generare elettricità.

L'idea è semplice anzi ferroviaria, si tratta di costruire un anello ferroviario al posto della giostra. Il convoglio è ad anello e i vagoni contengono i motori per controllare le funi dei kite.

Come il convoglio ad anello gira per la trazione dei kite a terra vi è l'insieme dei generatori elettrici che sfruttano il moto circolare del convoglio.

Il convoglio è in pratica un secondo anello mobile su cui sono montati i motori che controllano i kite e altre parti facilmente trasportabili, quindi questo anello si muove con delle ruote sulla prima rotaia saldamente ancorata al suolo.

Il moto dell'anello mobile ovvero del convoglio subisce la trazione verso l'alto da parte dei kite quindi avrà le ruote sotto la rotaia fissa.

L'anello mobile trasmette il moto a dei generatori elettrici ancorati al suolo.

Per una equa distribuzione delle forze si possono usare più generatori elettrici a distanze regolari che sfruttano il moto dell'anello dotato di cremagliera.

I vantaggi di questo metodo rispetto all'uso della giostra sono molti. Prima di tutto non vi sono parti a sbalzo e si può fare l'anello ferroviario grande quanto si vuole.

Questo è importantissimo perché fare una giostra da 2 kilometri di raggio è difficile come dice il prof Milanesi mentre fare una anello ferroviario grande quanto si vuole è molto più semplice.

Poi è facile fare fondamenta ad anello abbastanza resistenti per la rotaia. Inoltre non c'è un asse che deve sopportare sforzi enormi, poi si occupa una circonferenza mentre la giostra occupa un'area.

Inoltre la struttura ad anello è di modeste dimensioni contro la ciclopica struttura della giostra nel caso di ampi diametri.

L'ing Massimo Ippolito mi faceva notare come le braccia della giostra che servono per portare in quota i kite non hanno il corrispettivo nella mia idea. È vero, però un palo telescopico montato al suolo può fare la stessa funzione col vantaggio di una migliore e più facile costruzione. Quando l'anello viene fermato con il cavo del kite in corrispondenza del palo telescopico, viene agganciato il cavo alla sommità del palo che viene allungato in modo da portare il kite in quota.

In questo modo è anche possibile avere un unico palo telescopico che porta in quota tutti i kite.

Aggiornamento 8 lug 2009: L'ingegnere Massimo Ippolito mi ha gentilmente comunicato che è in costruzione a Berzano di San Pietro il prototipo dello STEM, hanno diverse autorizzazioni ma ne mancano alcune per via della solita burocrazia italiana che allunga i tempi senza valido motivo.

Ippolito mi scrive che la macchina è in costruzione in officina. Speravano di far partire il kitegen in queste settimane ma probabilmente le autorizzazioni arriveranno in autunno.

L'immagine che segue è quella di una simulazione grafica dello STEM il prototipo di kitegen che dovrebbe fornire una potenza di alcuni megawatt.

STEM  prototipo del Kitegen

Segnalo una lunghissima intervista all'ing Massimo che illustra lo STEM con molti dettagli tecnici. Si parla del kitegen sia come funzionamento che con dettagli tecnici, si parla di EROEI, si parla di problemi burocratici e della crisi che sta colpendo alcune società che contribuiscono al progetto.

Aggiornamento 2 ago 2010: La costruzione del prototipo sperimentale del Kitegen chiamato STEM a Berzano San Pietro ha trovato notevoli difficoltà di tipo burocratico. Diversi sono gli stop al progetto decretati dalle autorità soprattutto dalla Guardia Forestale che richiedono sempre nuovi permessi e nuove autorizzazioni. A questo punto Massimo Ippolito e la sua Sequoia automation hanno deciso di gettare la spugna per cui i lavori di costruzione dello STEM si fermano a Berzano.

In un altro comune del Piemonte sembra che le autorità siano meno inclini a mettere il bastone tra le ruote al progetto, a Sommariva Perno in provincia di Cuneo è già partita da tempo la nuova costruzione. Intanto, in questi giorni, anche Piero Angela nel suo Quark sulla RAI ha ampiamente illustrato il progetto con un dettagliato reportage. Su YouTube si può rivedere la trasmissione.



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