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febbraio 01, 2015

L’Italia ha un nuovo presidente: no, forse non passerà alla storia solo per il Mattarellum.

No, forse non passerà alla storia solo per il Mattarellum, la legge elettorale che nel 1994 avrebbe dovuto traghettare l’Italia verso la seconda Repubblica e che l’ha condotta invece, secondo i critici più feroci, nelle sabbie mobili del berlusconismo.

Proprio quella legge che avrebbe adulterato a tal punto il sistema maggioritario invocato dagli italiani con le battaglie referendarie cominciate nel 1991 da asservirlo con la quota proporzionale alle esigenze di sopravvivenza del vecchio ceto politico. Un’opera di fine cesello, da grande artista del diritto parlamentare che, seppellite le ragioni del rinnovamento esplose con Tangentopoli, avrebbe portato poi all’imperversare della Casta e al nominificio del Porcellum.

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Frecciate malevoli, ma quanto basta per allestire un processo politico e chiedere conto a chi a quel sistema elettorale ha dato persino il nome. Invece sembra destino che le cose possano andare diversamente. E che Sergio Mattarella non sia solo ricordato per alcuni effetti della sua legge. Lo si era cominciato a capire quando, di fronte agli ennesimi garbugli elettorali proposti con l’Italicum da Matteo Renzi e dagli altri pattisti del Nazareno, non pochi tra politici e cittadini hanno cominciato a rimpiangere il suo Mattarellum e ad invocarne la reintroduzione. Lo si capisce ancor di più adesso che il professore palermitano, cresciuto a pane e Democrazia Cristiana, è il nuovo presidente della Repubblica.

Una rivincita sulla sorte, sul destino spesso avverso che si è accanito sulla famiglia Mattarella. Gratificata da folgoranti carriere costruite sull’orgoglio democristiano, ma colpita anche da lutti e terribili sospetti. Una tradizione che inizia con il padre Bernardo, tra i fondatori della Dc, vicesegretario nazionale del partito nel 1945, eletto nel 1946 nell’Assemblea costituente, ministro e più volte sottosegretario nei governi De Gasperi. Un cursus honorum macchiato dai sospetti sui rapporti con gli esponenti della vecchia mafia siciliana da lui traghettati, secondo alcuni storici, dalla militanza monarchica e separatista sotto le insegne della Dc lanciata nell’occupazione del potere e nella conquista delle istituzioni. Sospetti terribili che nei decenni successivi hanno consentito a gente come Claudio Martelli di accusare il capostipite di collusione con la mafia.

Eppure, i democristiani hanno sempre difeso Bernardo, da potente in vita come dopo la morte, avvenuta nel 1971 in seguito ad un malore accusato alla Camera dei deputati. Lo ha fatto recentemente anche il quotidiano Europa: “Onesto, sensibile, generoso, come affermano le persone che lo hanno conosciuto e come affermato in numerose pronunce della magistratura”, ha scritto il giornale del Pd: un uomo “con un altissimo senso dello Stato e delle istituzioni” che esercitò “una grande influenza sui figli Piersanti e Sergio, che ne hanno continuato l’opera politica”. Parole impegnative che sembrano voler chiudere un capitolo spinoso della storia di famiglia. Continuata con l’ascesa di Piersanti che in pochi anni brucia tappe e scala il potere: deputato dell’Assemblea regionale siciliana, poi assessore. Fino al 1980 quando, presidente della Regione e promotore di un processo riformatore critico verso il sistema dei finanziamenti pubblici e poco gradito ai boss, venne ucciso sotto gli occhi del fratello. Dirà Piero Grasso, magistrato di Palermo e futuro presidente del Senato: “Stava provando a realizzare un nuovo progetto politico-amministrativo, un’autentica rivoluzione. Aveva turbato il sistema degli appalti pubblici con gesti clamorosi, mai attuati nell’isola”.


Il colpo è terribile. Ma proprio dalla tragedia di Piersanti comincia la rincorsa di Sergio, professore di diritto parlamentare all’università di Palermo. Milita nella corrente di Aldo Moro, entra in Parlamento la prima volta nel 1983. Quattro anni dopo, il balzo nel governo alla guida del ministero dei Rapporti con il Parlamento, prima nell’esecutivo De Mita poi in quello Goria. Un’esperienza che rivelerà il suo carattere freddo al punto da far sembrare Arnaldo Forlani “un movimentista”, sentenzierà Ciriaco De Mita. Cambiano i governi, Mattarella resta in sella. Con il sesto esecutivo Andreotti trasloca al ministero della Pubblica istruzione. Incarico che rivestirà fino alle dimissioni, clamorose, rassegnate insieme ad altri ministri della sinistra Dc per protestare contro l’approvazione della legge Mammì, proprio la legge voluta da Bettino Craxi, Andreotti e Arnaldo Forlani (il famoso Caf) che ha gettato le fondamenta sulle quali Silvio Berlusconi ha edificato il suo impero televisivo. Il padrone del Biscione e futuro leader di Forza Italia non la prese bene: le sue resistenze attuali al nome di Mattarella originano anche da quella vicenda. Che, per la verità, non fu l’unica nella quale il politico siciliano espresse la sua avversione nei confronti di Sua Emittenza. Successe di nuovo quando Forza Italia venne ammessa nel Partito popolare europeo. “Un incubo irrazionale”, disse allora Mattarella.

Direttore de Il Popolo, organo della Democrazia cristiana (dal 1992 al 1994), tra i traghettatori della Dc verso il Partito Popolare, fu proprio nei primi anni Novanta che Mattarella rimase coinvolto nella vicenda che gli costerà un procedimento penale per finanziamento illecito. Per una busta contenente tre milioni di vecchie lire in buoni benzina recapitatagli dall’imprenditore agrigentino Filippo Salamone, considerato dalla magistratura siciliana l’erede di Angelo Siino, il “ministro” dei lavori di Totò Riina. Mattarella si difese dalle accuse sostenendo di aver accettato quel regalo di “modesto valore” e di aver distribuito i buoni carburante ai suoi collaboratori. Il processo è andato avanti per un decennio e si è concluso con l’assoluzione (perché il fatto non sussiste). Alcune disavventure giudiziarie toccano anche alcuni familiari. Il fratello Antonio finisce indagato negli anni Novanta a Venezia per riciclaggio di denaro sporco e associazione mafiosa con Enrico Nicoletti (componente della Banda della Magliana) per una speculazione edilizia a Cortina. L’inchiesta fu poi archiviata per mancanza di prove. Il nipote (il figlio di Piersanti, Bernardo) deputato regionale in Sicilia, è invece indagato – come molti colleghi in tutta Italia – per peculato in relazione ai rimborsi ai gruppi consiliari della Regione.

Nel frattempo, Sergio ha il tempo per inanellare una carriera invidiabile che ne fa uno degli esponenti più in vista della classe dirigente post-democristiana: battezza il Mattarellum, torna al governo con D’Alema nel 1998 assumendo la carica di vicepresidente del Consiglio e poi quella di ministro della Difesa. E’ tra i fondatori della Margherita e resta in Parlamento fino al 2008. Alle successive elezioni non si ricandida, sembra eclissarsi anche se nel 2009 l’allora segretario del Pd Dario Franceschini lo ripesca come possibile presidente della Rai. Non se ne farà niente, naturalmente, e sempre per la stessa ragione: l’antico risentimento del “nemico” Silvio nel frattempo tornato a Palazzo Chigi.

Sono anni di apparente silenzio per Mattarella, che viene segnalato dalle cronache solo in poche circostanze, come nel gennaio 2010 quando con la famiglia, i figli di Piersanti e i nipoti, viene ricevuto al Quirinale dal presidente Napolitano che rende omaggio a Piersanti per “lo straordinario valore del suo impegno”. Nel 2011 l’ultimo scatto (almeno per adesso) della sua carriera: spinto dagli amici del Partito democratico viene eletto alla Corte costituzionale. E, ironia della sorte, come giudice della Consulta il 4 dicembre 2013 dichiara incostituzionale quel Porcellum che il centrodestra aveva imposto cancellando, dopo oltre un decennio di applicazione, il suo Mattarellum.

Una coincidenza curiosa che sembrò assumere il sapore della rivincita. Ma solo agli occhi di chi non conosce bene il giudice costituzionale. Sergio non è certo un vendicativo: dai suoi amici più stretti viene descritto come persona “capace di incassare senza battere ciglio una sconfitta ma intransigente sui valori“. Che non è poco, soprattutto in un periodo di grandi incertezze e smarrimenti come quello che sembra coinvolgere larghi settori delle nostre istituzioni. Per questo in tanti lo temono.

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