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maggio 08, 2013

Giulio Andreotti altro che faldoni, ecco la sentenza–da ricordare - (7a parte).

wojtyla-andreottiA definitivo suggello della precedente disamina, la Corte di Appello è pervenuta alla conclusione che, se non si poteva escludere che Andreotti si fosse, in qualche occasione, pur rimanendo inerte, assunto “meriti” che, in realtà, non aveva, si doveva ritenere certo che egli aveva manifestato ai mafiosi con cui era in contatto la sua amichevole disponibilità e la sua benevolenza e che, con il suo atteggiamento, aveva, comunque, indotto in essi il convincimento che egli fosse, in alcuni casi, intervenuto per agevolarli, così procurandosi e conservando l’amicizia e i favori dei medesimi, peraltro già intimamente legati ai suoi sodali, Lima e Salvo, e comunque inclini ad ossequiare e blandire l’illustre uomo politico.

Quindi si è chiesta quali benefici Andreotti avesse tratto dai descritti rapporti amichevoli.
In primo luogo, ha considerato i benefici elettorali dipendenti dall’appoggio concesso dai mafiosi agli esponenti siciliani della sua corrente.

L’analisi delle risultanze processuali ha indotto la Corte a definire arduo individuare un atteggiamento unitario di tutta l’organizzazione mafiosa in occasione delle consultazioni elettorali, essendo invece apparsa preponderante l’incidenza delle relazioni intrattenute con l’elettorato dai personaggi politici locali.

Però ha anche spiegato che, almeno fino alle elezioni politiche del giugno 1987, l’appoggio elettorale degli ambienti mafiosi era, a torto o a ragione, comunemente avvertito come niente affatto trascurabile, cosicché era del tutto plausibile che un uomo politico potesse ritenere utile, a tale fine, coltivare amichevoli relazioni con i mafiosi, anche se, nell’ambito del suo stesso partito, tale appoggio agli appartenenti alla sua corrente non era stato affatto esclusivo (come dimostrato dal successo della corrente dorotea).

In secondo luogo, la Corte ha valutato l’eventualità che la propensione dell’imputato ad avere personali, amichevoli relazioni con esponenti di vertice di Cosa Nostra, relazioni certamente propiziate dagli intimi rapporti già intrattenuti da Lima, fosse stata determinata dalla possibilità di utilizzare la struttura mafiosa per interventi che potrebbero definirsi extra ordinem, ovvero per arrivare, in taluni casi peculiari, a soluzioni difficilmente raggiungibili seguendo canali ortodossi (in questo quadro è stata considerata ben inserita la vicenda Nardini).

Quindi ha esaminato la crisi dei rapporti tra il sen. Andreotti e la frangia di Cosa Nostra con cui aveva intrattenuto relazioni amichevoli.

Secondo la Corte, Andreotti aveva oggettivamente sottovalutato la pericolosità dei suoi interlocutori, ma le sue certezze nei loro confronti si erano infrante tra la seconda parte del 1979 e l’inizio del 1980, allorché, chiamato ad interessarsi della questione Mattarella, aveva indicato nella mediazione politica la possibile soluzione (fonte: Francesco Marino Mannoia), che, tuttavia, dopo alcuni mesi, era stata del tutto disattesa dai mafiosi, i quali avevano assassinato il Presidente della Regione, scelta che aveva sgomentato Andreotti, il cui realismo politico non si spingeva fino a contemplare l’omicidio del possibile avversario.

Sempre secondo la Corte, la drammatica disillusione, l’emozione suscitata dall’estrema gravità del tragico assassinio del Presidente Mattarella, soppresso alla presenza dei familiari, e lo smacco provato nell’aver visto la sua indicazione disattesa spiegherebbero la sua decisione di “scendere” a Palermo e di incontrare nuovamente gli interlocutori mafiosi per chiedere chiarimenti e non certo per felicitarsi di una soluzione che pure era stata, in definitiva, foriera di rimarchevoli vantaggi per il suo gruppo politico locale e per i suoi amici Salvo. I reclami e le critiche di Andreotti sarebbero stati, nell’occasione, tanto fermi e insistiti da suscitare l’irritazione e l’ira di Bontate, il quale, abbandonato l’atteggiamento solitamente calmo e compassato, avrebbe reagito alzando la voce e spingendosi perfino a minacciare l’illustre interlocutore di gravissime conseguenze se fossero state adottate iniziative normative contro la mafia.

La Corte ha ritenuto che, in tal modo, Andreotti si fosse reso conto che era stato un grave errore immaginare di poter agevolmente disporre dei mafiosi e di guidarne le scelte imponendo, con la propria autorevolezza e il proprio prestigio, soluzioni incruente e “politiche” ai problemi insorti; del resto – sempre secondo il giudice di appello - il suo convincimento era già stato scalfito da alcuni, recenti e gravissimi fatti di sangue (gli omicidi del commissario Boris Giuliano, del giudice Cesare Terranova, e forse anche del capitano Emanuele Basile) circa il rispetto assoluto dei mafiosi verso gli esponenti delle istituzioni pubbliche. Ciò lo aveva spinto a rivedere radicalmente i propri rapporti con gli “uomini d’onore” e ad allontanarsene.

Esaurita questa disamina, la Corte di Appello ha analizzato i fatti relativi all’epoca successiva all’avvento dei “corleonesi” (dal 1981 – 1982 in poi), premettendo subito che, in proposito, non era stata acquisita, a differenza di quanto accaduto per il periodo precedente, alcuna indicazione, anche vaga e sfornita di idonea efficienza dimostrativa, concernente favori concessi o richiesti dall’imputato e che non era destinata ad approdare ad esiti positivi la indagine sul comportamento del medesimo, nel cui atteggiamento non erano ravvisabili neppure quelle manifestazioni di disponibilità che, con riferimento all’epoca precedente, aveva considerato provate.

Infatti la situazione oggettiva e il subentrare dell’egemonia dei “corleonesi”, fino ad allora estromessi da ogni rapporto con Andreotti, tanto da irritarsene, non consentivano, se non a prezzo di un inammissibile salto logico, di ipotizzare una continuità delle relazioni fra l’imputato e Cosa Nostra.

La sentenza impugnata ha ritenuto che Andreotti avesse mantenuto il legame con Lima pur nella consapevolezza dei rapporti intrattenuti da costui con Bontate e altri mafiosi; tuttavia Bontate era stato ben presto eliminato dai “corleonesi” e non era dimostrato (non essendo a tal fine significative le dichiarazioni dei collaboratori) che Lima avesse allacciato con costoro e con Riina gli stessi rapporti stretti; in ogni caso, l’imputato si era astenuto da qualsiasi disponibilità personale nei confronti dei mafiosi, pur mantenendo il suo legame politico con Lima.

Quanto ai rapporti tra Andreotti e i cugini Salvo, la Corte ha ritenuto che la negazione della conoscenza, da parte dell’imputato, inducesse a ritenere la concreta possibilità che costui fosse, quantomeno, consapevole che i rapporti con i predetti erano risalenti e che erano da tempo cessati, cosicché la carenza di contatti relativamente recenti aveva reso più difficile contrastare l’azzardata affermazione difensiva.
La possibilità che le relazioni fra Andreotti e i Salvo si fossero diradate aveva trovato – secondo la Corte - un certo qual riscontro in una serie di elementi, quali la scarsa forza probante dei fatti successivi alla primavera del 1980 addotti dai P.M. (la telefonata in ospedale, l’uso di autovetture riconducibili ai Salvo, l’assenza di indicazioni circa le relazioni fra l’imputato e i Salvo provenienti da eminenti andreottiani della seconda ora, la stessa circostanza che, in relazione all’omicidio Cappiello, Ignazio Salvo si fosse proposto come semplice intermediario tra il boss Rosario Riccobono e Lima, che a sua volta avrebbe dovuto rivolgersi ad Andreotti, anziché interloquire direttamente con lui, la mancanza di qualsiasi iniziativa dei Salvo per ottenere che l’imputato si attivasse per il trasferimento di Leoluca Bagarella dal carcere di Pianosa a quello di Novara), elementi che avevano dato corpo all’indicazione di Francesco Marino Mannoia, secondo cui i nuovi capi di Cosa Nostra non avevano ottenuto la disponibilità di Andreotti.

Passando all’esame analitico, la Corte territoriale ha considerato l’indicazione di Giovanni Brusca circa un messaggio (gli amici si dessero una calmata altrimenti egli sarebbe stato costretto a prendere provvedimenti in Sicilia) che Andreotti avrebbe fatto pervenire ai presunti sodali tramite Antonino Salvo nel corso della cosiddetta guerra di mafia ed ha ritenuto possibile che egli avesse effettivamente commentato nei termini sintetizzati la situazione in atto a Palermo, formulando la fin troppo ovvia osservazione che il protrarsi della stessa avrebbe costretto all’adozione di misure eccezionali, ma non implicava che siffatta osservazione fosse effettivamente un avvertimento da comunicare ai mafiosi, anziché una mera constatazione che lo stesso Salvo, animato dal plausibile intento di mitigare le violenze, si era premurato di girare al Brusca ammantandola di accenti ammonitori.

Quindi ha analizzato i rapporti di Andreotti con Vito Ciancimino, con particolare riguardo all’accordo tattico concluso in occasione del congresso regionale della Democrazia Cristiana svoltosi nel 1983 ad Agrigento, condividendo il giudizio finale del Tribunale circa la loro scarsa incidenza sulla valutazione dell’imputazione contestata, essendosi Andreotti e Ciancimino incontrati appena quattro volte e non potendosi assegnare agli interventi dell’imputato un ruolo propulsivo della collaborazione della sua corrente siciliana con Ciancimino. Per contro, a parte le rivelazioni generiche e incerte di Antonino Giuffré, non era risultato in alcun modo che costui, legato ai “corleonesi”, avesse fatto da tramite e spianato la strada a relazioni fra costoro e l’imputato (non a caso, proprio alla fine del 1981 Ciancimino aveva concluso la sua temporanea e travagliata adesione alla corrente andreottiana).

Poi la Corte territoriale ha indagato sui pretesi interventi dell’on. Lima e del sen. Andreotti per ottenere il trasferimento di alcuni detenuti siciliani (tra cui Leoluca Bagarella) dal carcere di Pianosa a quello di Novara nell’anno 1984 (nello stesso periodo – tra la fine del 1983 e il 1984 – il Ministro degli Esteri Andreotti aveva profuso grande impegno per conseguire l’estradizione di Tommaso Buscetta, la cui collaborazione è stata di importanza essenziale nella lotta alla mafia), rilevando che l’unica fonte probatoria, il collaboratore Gaetano Costa, non era di per sé inattendibile, ma che erano mancati i necessari riscontri esterni, soprattutto quelli individualizzanti.

Infatti la corretta lettura delle dichiarazioni di Salvatore Cirignotta, direttore dell’Ufficio Centrale detenuti del Ministero di Grazia e Giustizia, induceva a ritenere che il provvedimento, raro e non già anomalo, era stato adottato in una situazione di fermento dei detenuti e che il trasferimento era avvenuto da un carcere di massima sicurezza ad un altro carcere di massima sicurezza; per di più esso aveva riguardato anche detenuti estranei a Cosa Nostra.

Inoltre il preteso interessamento di Andreotti era stato attestato esclusivamente dalla propalazione di un collaboratore di giustizia che, in buona sostanza, aveva riferito di una rivelazione, quanto mai vaga nei confronti dell’imputato (Lima si stava interessando per ottenere il trasferimento e dietro di lui c’era Andreotti), fattagli da un terzo (Bagarella) sulla scorta di quanto quest’ultimo, a sua volta, aveva appreso da fonte che non era stato in grado di precisare.

In definitiva, il giudice di secondo grado ha ritenuto possibile l’eventualità che il trasferimento fosse stato sollecitato dal solo Lima, considerato anche che costui, avendo ricoperto la carica di sottosegretario, avrebbe potuto usufruire di legami nel mondo politico romano e ha concluso che, in ogni caso, l’intervento di Andreotti, ove fosse stato effettivamente provato, sarebbe avvenuto in un periodo in cui l’imputato aveva mostrato un consistente impegno istituzionale antimafia e, quindi, non sarebbe stato idoneo ad integrare una ipotesi di concorso nel delitto di associazione mafiosa.

La successiva disamina ha riguardato il colloquio riservato tra l’imputato e Andrea Manciaracina, svoltosi nell’hotel Hopps di Mazara del Vallo nel tardo pomeriggio del 19 agosto 1985.

Certa la ricostruzione del fatto, la Corte si è soffermata sulla sua interpretazione, ritenendo che l’incontro non fosse stato concordato preventivamente e che nell’occasione l’imputato, ignaro, avesse subito l’iniziativa, piuttosto estemporanea, di Manciaracina, appoggiata e agevolata dal Sindaco di Mazara del Vallo, e quindi avesse accordato il colloquio senza che nessuno si fosse preoccupato di segnalargli la personalità e l’estrazione familiare dell’interlocutore.

Sulle ragioni del colloquio, ha dapprima stigmatizzato il Tribunale rimproverandolo di essersi abbandonato a supposizioni invece di procedere al possibile approfondimento investigativo e poi ha ritenuto ragionevole pensare che esso avesse avuto ad oggetto una o più sollecitazioni o raccomandazioni rivolte da Manciaracina all’uomo politico, non essendo immaginabile nessun altro argomento su cui il predetto avrebbe potuto intrattenersi riservatamente con l’imputato, convenendo, però, che lo svolgimento riservato del colloquio aveva suggerito che dette sollecitazioni o raccomandazioni riguardassero favori cui erano interessati esponenti mafiosi.

Ma la Corte palermitana ha attribuito a ciò scarso rilievo, ai fini del processo, ritenendo che l’accaduto non bastasse per riconoscere alla relativa condotta pregnante significato ai fini dell’attribuzione all’imputato di una continuativa disponibilità verso il sodalizio criminale, ovvero - al di fuori e in alternativa a tale ottica - ai fini dell’addebito al medesimo di un singolo comportamento agevolativo dello stesso sodalizio dotato di connotati sufficienti a radicare una ipotesi di concorso nel delitto di associazione mafiosa, non essendovi alcuna traccia di una sua successiva attivazione in tal senso.

Poi ha esaminato il presunto incontro che Giulio Andreotti avrebbe avuto a Palermo con Salvatore Riina, il quale, alla vigilia delle elezioni politiche del 1987, aveva deciso di orientare i voti mafiosi verso il P.S.I. per dare uno schiaffo alla D.C. (fatto che Francesco Marino Mannoia ha collegato al venir meno della disponibilità di Andreotti), rilevando che la flessione di quel partito era stata tale da non suscitare particolare preoccupazione nei suoi esponenti, per cui appariva una forzatura ritenere che Andreotti avesse deciso di correre ai ripari incontrando Riina.

Quindi ha indicato una serie di ragioni logiche ostative alla effettività dell’incontro inferendone che, per ritenerlo provato, sarebbero occorsi specifici apporti, idonei ad offrirne adeguata e rigorosa dimostrazione.
Invece l’attendibilità personale di Vito Di Maggio non era immune da consistenti rilievi, considerate le innegabili contraddizioni in cui era incorso, la tardività delle dichiarazioni, l’inclinazione a raccontare fatti inesistenti, nonché la sua stessa personalità (si era determinato a collaborare solo per sfuggire alla sua paventata soppressione decretata dai mafiosi, tanto che, successivamente, aveva ripreso a delinquere commettendo ulteriori, gravissimi reati).

D’altra parte gli elementi di riscontro, in particolare le contraddittorie e variate nel tempo dichiarazioni dei fratelli Enzo Salvatore ed Emanuele Brusca, erano parimenti deficitari sotto il profilo dell’attendibilità e svalutati dalle considerazioni che non avevano saputo nulla dell’incontro personaggi di primissimo piano quali Vincenzo Sinacori e Salvatore Cangemi e che non appariva provato che Riina avesse parlato dell’episodio con il cognato Leoluca Bagarella.
 
Queste considerazioni hanno indotto la Corte palermitana a ritenere sostanzialmente irrilevante la pur lunga indagine, peraltro approdata a risultati non conclusivi, in ordine alla mera compatibilità dello svolgimento dell’incontro Andreotti-Riina con i movimenti dell’imputato nel primo pomeriggio del 20 settembre 1987, che i PM avevano individuato come quello in cui l’incontro medesimo sarebbe avvenuto (tra l’altro la Corte ha rilevato che nessun propalante, nemmeno Di Maggio, aveva mai indicato specificamente al riguardo il mese di settembre 1987 e che destava forti perplessità l’indicazione della durata approssimativa del tragitto percorso in macchina da Di Maggio insieme a Riina per trasferirsi dal luogo di partenza all’abitazione di Ignazio Salvo).

Ma la Corte ha voluto – come una sorta di avvocato del diavolo – prospettare anche un’ipotetica accettazione della versione accusatoria per giungere alla conclusione che, in ogni caso, essa non sarebbe servita per affermare la responsabilità penale dell’imputato, in quanto varie considerazioni, legate alla interpretazione e valutazione delle risultanze processuali, avrebbero indotto, comunque, ad escludere che la sua azione si fosse inserita in un contesto di diuturna disponibilità verso la tutela degli interessi di Cosa Nostra e che fosse stata sorretta dalla volontà di cooperare con il sodalizio criminale, mentre più di una riserva si sarebbe dovuta nutrire sull’eventualità che egli avesse effettivamente inteso adoperarsi per procurare all’organizzazione mafiosa un contributo essenziale per la sua sopravvivenza.

Del resto, il suo atteggiamento psicologico al riguardo era stato confermato dai successivi comportamenti dell’imputato, quali l’attività svolta per ottenere l’estradizione di Buscetta e l’impegno profuso per la difficoltosa approvazione del provvedimento che avrebbe prolungato i termini di custodia cautelare, impedendo la scarcerazione, nel corso del giudizio di appello, di numerosi imputati del maxiprocesso (particolarmente rilevante al riguardo la deposizione dell’on. Giuliano Vassalli, all’epoca Ministro della Giustizia, ulteriormente confortata da quella del sen. Francesco Cossiga, all’epoca Presidente della Repubblica), comportamenti interpretati dalla Corte come manifestazioni di particolare fervore antimafia.
Naturalmente è stato considerato anche il presunto tentativo dell’imputato di aggiustare il maxiprocesso attivandosi presso il presidente della prima sezione penale di questo Supremo Collegio, dr. Corrado Carnevale, fatto riferito da svariati collaboratori di giustizia (la Corte palermitana ha sottolineato la significativa mancanza, tra di essi, dell’attendibile Francesco Marino Mannoia, che pure era a conoscenza delle voci che circolavano nell’ambito di Cosa Nostra a proposito della “disponibilità” di Carnevale).
Ma, in ogni caso, secondo il giudice di Appello, anche a voler seguire la ricostruzione dei P.M., malgrado la disinvoltura della loro prospettazione, finalizzata a conferire alla collocazione temporale degli avvenimenti un assetto compatibile con la tesi sostenuta, resterebbe l’intrinseca debolezza di una ipotesi accusatoria che ha fondato la sua dimostrazione, più che su fatti concreti e accertati, essenzialmente sulla diffusione fra gli “uomini d’onore” di vaghe voci e generiche informazioni, peraltro provenienti da un’unica fonte da identificare in Salvatore Riina.

Secondo la Corte, all’epoca costui aveva maturato alcune consapevolezze sulla scorta dell’analisi degli avvenimenti: Andreotti, che un tempo non aveva negato la sua amicizia ad (altri) esponenti mafiosi, non gli aveva mai dimostrato alcuna disponibilità e si era, in concreto, rivelato, nel corso degli anni, un nemico sempre più agguerrito di Cosa Nostra; Lima, anch’egli un tempo amico dei mafiosi avversari di Riina, era, ormai, inaffidabile per Cosa Nostra e su di lui da tempo non si poteva più contare, cosicché poteva essere soppresso; del pari poteva essere soppresso Ignazio Salvo, la cui sorte già da tempo era segnata, come riferito da Giovanni Brusca.

Tutto ciò spiegava il forte risentimento di Riina nei confronti dell’imputato senza necessità di ricorrere alla promessa tradita di adoperarsi per aggiustare il maxiprocesso e, nel contempo, induceva a negare la disponibilità illimitata di Andreotti ad intervenire a favore di Cosa Nostra e dei suoi capi.

Del resto, superato eventualmente questo primo ostacolo, sarebbe rimasto il secondo: la mancata prova della possibilità di intervenire sul presidente Carnevale e dell’esistenza di un grado di rapporti tra costui e Andreotti così intimo da consentire all’uno di intraprendere un’azione efficace presso l’altro.

Gli ultimi episodi esaminati dalla Corte territoriale hanno riguardato le elezioni regionali del giugno 1991 e i casi di Raffaele Bevilacqua e Giuseppe Giammarinaro che, nella prospettazione accusatoria, costituirebbero la riprova della persistente disponibilità di Andreotti nei confronti di Cosa Nostra.

La candidatura del primo, sicuramente inserito in Cosa Nostra, era stata sollecitata dall’on. Lima, che lo aveva aiutato anche sul piano economico, mentre per sostenere quella del secondo, persona vicina ai Salvo, si erano attivati diversi esponenti mafiosi.

Ma, sulla base del materiale probatorio acquisito, la Corte territoriale ha concluso che l’appoggio elettorale degli “uomini d’onore”, peraltro non particolarmente incisivo sui risultati complessivi (ad esempio Bevilacqua non era stato eletto malgrado il pieno sostegno di tutta la mafia dell’ennese), era legato più ai rapporti intrattenuti, a livello locale, con il singolo candidato che ad orientamenti e considerazioni di carattere generale riguardanti l’azione politica riferibile al leader nazionale della corrente andreottiana, azione a quell’epoca tanto palesemente contraria a Cosa Nostra da provocare una comprensibile irritazione fra gli affiliati (era recente l’emanazione del discusso D.L. n. 60/1991).

Così inquadrata la vicenda, il giudice di appello ha individuato nell’on. Lima il soggetto, nell’ambito della corrente andreottiana, al quale attribuire la impostazione della campagna elettorale regionale, le alleanze funzionali alla stessa, i rapporti con i vari candidati, la loro scelta e la difesa della stessa nell’ambito degli organismi del partito preposti alla deliberazione delle liste, con esclusione di qualsiasi coinvolgimento diretto e consapevole dell’imputato, di cui il quadro probatorio ragionevolmente aveva escluso un consapevole coinvolgimento in azioni volte ad agevolare l’appoggio elettorale, tollerato dai vertici di Cosa Nostra e prestato da singoli gruppi mafiosi, a singoli candidati appartenenti alla corrente del medesimo; meno che meno detta tolleranza e detto appoggio potevano essere stati propiziati da favori elargiti da Andreotti a Cosa Nostra o da promesse da lui fatte, potendosi, semmai, ipotizzare un tentativo dei vertici di Cosa Nostra di ingraziarsi il potente uomo politico dopo il disorientamento creato dal fallimento della strategia del 1987 e dalla constatazione di possedere una forza di condizionamento elettorale di imbarazzante modestia.

D’altra parte – sempre secondo la Corte territoriale – la certezza che l’imputato fosse al corrente dell’appoggio dato dagli esponenti della sua corrente alla candidatura del mafioso avv. Bevilacqua e delle resistenze palesate da altri componenti della Direzione Nazionale della D.C. era frutto di una semplice congettura degli appellanti P.M..

Invece era stata provata e persino ammessa la conoscenza dell’imputato con Giammarinaro, che però non era risultato organicamente inserito in Cosa Nostra, per cui, da una parte, l’appoggio elettorale accordatogli da alcuni mafiosi era fondato su un sistema di relazioni personali che non scaturivano dalla comune appartenenza al sodalizio criminale e, dall’altra, ancora meno significativo diventava il rapporto fra il predetto e l’imputato, il quale si era limitato a partecipare alla manifestazione di chiusura della campagna elettorale, ma non era risultato coinvolto nella scelta del Giammarinaro quale candidato e tanto meno nelle manovre da costui poste in essere, unitamente all’on. Lima,per assicurarsi l’appoggio di gruppi mafiosi.

7- Le conclusioni della Corte d’Appello

A questo punto la Corte di Appello ha tratto le proprie conclusioni definitive, affermando che un’autentica, stabile e amichevole disponibilità dell’imputato verso i mafiosi non si era protratta oltre la primavera del 1980, dal momento che eventuali e non compiutamente dimostrate manifestazioni di disponibilità personale successive a tale periodo erano state semplicemente strumentali e fittizie, comunque non assistite dalla effettiva volontà di interagire con i mafiosi anche a tutela degli interessi della organizzazione criminale; anzi, in termini oggettivi, era emerso un sempre più incisivo impegno antimafia, condotto dall’imputato nella sede sua propria dell’attività politica, per cui, in relazione al periodo in questione, ad onta degli elementi sopra evidenziati, l’impugnata statuizione assolutoria, che aveva negato un’adeguata prova della contestata condotta associativa, doveva essere confermata.

La Corte territoriale è, invece, pervenuta a conclusioni difformi con riferimento al periodo precedente, avendo ritenuto la sussistenza: 1) di amichevoli e anche dirette relazioni del sen. Andreotti con gli esponenti di spicco della c.d. ala moderata di Cosa Nostra, Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti, propiziate dal suo legame con l’on. Salvo Lima ma anche con i cugini Antonino e Ignazio Salvo, essi pure, peraltro, organicamente inseriti in Cosa Nostra; 2) di rapporti di scambio, atteso che dette amichevoli relazioni avevano determinato il generico appoggio elettorale alla corrente andreottiana, anche se non esclusivo e non esattamente riconducibile ad una esplicitata negoziazione e non riferibile precisamente alla persona dell’imputato; 3) del solerte attivarsi dei mafiosi per soddisfare, ricorrendo ai loro metodi, talora anche cruenti, possibili esigenze – di per sé non sempre di contenuto illecito - dell’imputato o di amici del medesimo; 4) della palesata disponibilità e del manifestato buon apprezzamento del ruolo dei mafiosi da parte dell’imputato, frutto non solo di un autentico interesse personale a mantenere buone relazioni con essi, ma anche di una effettiva sottovalutazione del fenomeno mafioso, dipendente da una inadeguata comprensione - solo tardivamente intervenuta - della pericolosità di esso per le stesse istituzioni pubbliche e i loro rappresentanti; 5) della travagliata, ma sintomatica, interazione dell’imputato con i mafiosi nella vicenda Mattarella, risoltasi, peraltro, nel drammatico fallimento del suo disegno di mettere sotto controllo l’azione dei suoi interlocutori ovvero, dopo la scelta sanguinaria di costoro, di tentare di recuperarlo, promuovendo un definitivo, duro chiarimento, rimasto infruttuoso per l’atteggiamento arrogante assunto da Bontate.

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