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settembre 16, 2010

Tecnologie e Culture Digitali: Apocalypse Science

Diamoci da fare: balliamo tutte le notti, cambiamo partner subito e ripetutamente, compriamo quello che ci gira e diamo fondo al portafogli. La nostra specie sta per estinguersi. Non ci resta molto. Altro che il 2012 dei Maya e panzane simili.


Questa volta a dirlo sono gli scienziati. Gli scien-zia-ti. E quando si legge una profezia firmata “Scienziato” può diventare difficile farci dell’ironia. Questi non fanno appello agli astri e a divinità che nessuno ha mai visto: parlano di fisica e di ecologia e usano grafici e numeri. Noi possiamo solo notare che l’unico commento possibile è Who knows? e poi suddividere la categoria in due: i pessimisti catastrofisti lavedoneristi, e tutti gli altri.Tra i primi, si segnala un’ultima uscita tutta italiana dalla casa editrice il Mulino, che propone una visione raffinata della faccenda.


È contenuta in Il prezzo del linguaggio. Evoluzione ed estinzione nelle scienze cognitive, di Antonino Pennisi (preside di Scienze della Formazione all’università di Messina) e Alessandra Falzone (psicobiologa del linguaggio nello stesso ateneo). Una visione raffinata, dicevamo, che punta il dito sul linguaggio. Sì, il linguaggio. Non ci si fa un B-Movie hollywoodiano, con una proposta catastrofista così poco spettacolare.


Ma aspettate di sentire la spiegazione: la specie umana è una specie ecologicamente anomala per via del fatto che parla, cosa che permette (o obbliga a usare) il pensiero astratto e tutto quel che segue (dalla tecnologia alla socialità, per dire). “Anomalia ecologica e diversità mentale sono due facce della stessa medaglia”, e la diversità mentale dirige un’evoluzione culturale che si intreccia a quella biologica, però poi la soverchia e finirà per sopraffarla.


Tradendoci. E portandoci all’estinzione. Perché avere il linguaggio e tutto il resto significa poter abitare in tutte le nicchie ecologiche senza che debba intervenire l’evoluzione naturale. Ma poi aver colonizzato tutte le nicchie.

del pianeta si rivelerà (e si sta già rivelando) un disastro per la specie umana e la premessa per la sua estinzione.

L’ipotesi di Pennisi e Falzone è provocatoria e ha una conclusione desolante (“abbandonarsi all’eutanasia naturale è forse una miglior fine”), ma contiene una verità biologica incontestabile. Perché dovremmo essere diversi dalle altre specie? È successo ai dinosauri e a tanti altri, perché non dovrebbe accadere anche a noi?


Tanto più che noi umani abbiamo l’insana tendenza a sconquassare gli habitat nostri e degli altri, con una ammirevole e puntuale precisione. Disboschiamo e prosciughiamo, facciamo guerre durante le quali distruggiamo parti del globo e tutto quello che ci vive sopra, ci riproduciamo senza freni e pretendiamo di non morire mai, scarichiamo i nostri rifiuti in aria e in acqua oppure li seppelliamo sotto terra, fino a modificare la composizione di quello che respiriamo e la sua temperatura. Per questo, tra gli scienziati più pessimisti, le ipotesi che vanno per la maggiore sono riferite all’esaurimento delle risorse. Sovrappopolazione e riscaldamento globale, insomma. Anche senza tirare in ballo il linguaggio e la mente.


Frank Fenner, per esempio, di mestiere faceva il microbiologo e studiava il vaiolo. Adesso ha 95 anni e a noi piace pensare che le sue esternazioni siano dovute al pessimismo della terza età. Quest’estate ha dichiarato a un giornale australiano che secondo lui abbiamo, al massimo, ancora un secolo di vita. Cento anni così delineati: prima soffriremo per le conseguenze dei cambiamenti climatici e poi la situazione precipiterà per l’esaurimento delle risorse, facendoci fare la fine degli abitanti dell’isola di Pasqua, all’improvviso. Siamo noi a modificare il pianeta, dice Fenner riferendosi all’Antropocene di Paul Crutzen (l’era geologica nella quale è l’uomo il responsabile dei maggiori cambiamenti), e ne combiniamo più di un meteorite o di un’era glaciale. Solo che siamo anche tra quelli che ne subiscono le conseguenze ed è un po’ miope non rendersene conto.


Se il fantasma della catastrofe ecologica non vi sembra tanto originale, possiamo proseguire con gli umanisti. Come Nicholas Boyle, storico dell’Università di Cambridge e pezzo grosso della British Academy, che ha descritto la sua apocalisse in 2014 – Come sopravvivere alla prossima crisi globale, libro in uscita in inglese questo autunno. In questo caso l’ipotesi, ahinoi, lega i destini di tutti a quelli degli Stati Uniti, che con la loro politica estera possono condannarci a un declino senza ritorno (o anche portarci verso una nuova arcadia mondiale, ma qui stiamo parlando di apocalissi e non vorremmo uscire fuori tema), anzi: alla Crisi terminale, definitiva, che segnerà la scomparsa dell’umanità. Stiamo andando verso una catastrofe economica globale, dice Boyle, e c’è bisogno che tutti i paesi, tutti, si rendano conto di non essere autosufficienti e si rassegnino alla costruzione di un sistema di governo mondiale.


La ricetta comprenderà la tassazione delle banche e delle transazioni sui mercati valutari, il cambiamento delle relazioni internazionali tra Stati, e soprattutto il prevalere del modello imperiale come sistema di costruzione della collettività. E perché 2014? Perché un po’ di cabala c’è anche qui e Boyle nota che i destini di ogni secolo nella storia moderna si sono giocati proprio nella seconda decade (cioè tra l’anno 10 e il 19) e in particolare intorno al 14-15 (Congresso di Vienna e Prima guerra mondiale, per dire). Quindi veloci a metter su l’Impero, ragazzi.


Tra l’altro, tra i catastrofisti l’idea di dover abbandonare l’obsoleta democrazia a favore di un centralismo globale unico e dispotico non è una trovata di Boyle. In fondo, riflettono alcuni, stiamo dimostrando di non essere in grado di metterci d’accordo sulle misure per contenere il dissesto ambientale nemmeno di fronte alle manifestazioni più gravi dell’emergenza. E allora ci vuole un governo di polso, come in uno stato di guerra. Lo dice anche James Lovelock, lo scienziato inglese guru dell’ambientalismo anni settanta, quello che inventò la teoria di Gaia (la Terra come un grande organismo vivente), e lo dice in un libro di pochi anni fa uscito a ridosso del fallimento del vertice di Copenhagen: La vendetta di Gaia. Era il 2006 e Lovelock intanto scriveva un paio di articoletti per dire che miliardi di persone, più o meno l’80% dell’umanità, moriranno entro il 2100 a causa delle conseguenze del riscaldamento climatico. Di abitabile, spiegava, ci resterà solo qualche pezzo di Antartide, mentre il resto diventerà deserto, o quasi.


Se proprio, arrivati fin qui, rispondete ancora esagerato… e non vi siete ancora convinti a godere al massimo di questi ultimi mesi di vita della specie (o, al contrario, a vedere sotto un occhio più severo e preoccupato i problemi che abbiamo creato), sappiate che persino il più ottimista degli ottimisti ha cambiato idea. Uno come Bjørn Lomborg, quello che ai problemi ecologici del pianeta non ci credeva per niente e si è costruito una carriera recitando la parte dell’«ambientalista scettico». Nel suo nuovo libro Smart solution to climate change, anche Lomborg riconosce che il riscaldamento globale c’è ed è pure preoccupante. Tanto che, beata epifania, ammette la necessità di investire in fretta un po’ di risorse nella ricerca di sistemi per guarire il pianeta.


Nel suo caso, si tratta comunque di sistemi ad altissima tecnologia, comprese quelle cose un po’ futuribili tipo lo sbiancamento delle nuvole per riflettere i raggi solari. Certo è che quando anche uno come lui, che sospirava davvero esagerati… a ogni discorso sul riscaldamento globale, comincia a pensarla così, viene il sospetto che le file dei pessimisti catastrofisti lavedoneristi siano sempre più nutrite. E che forse valga la pena ascoltarli, questi scienziati. Anche se a volte parlano come un calendario Maya e non concludono le profezie con un invito a spassarsela alla grande finché si può, in attesa dell’Apocalisse.

Articolo pubblicato originariamente su il manifesto / Alias dell’11 settembre 2010


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